Vangelo secondo San Marco 1,29-39:
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Si alzò e si mise a pregare
Luis CASASUS Presidente delle Missionarie e dei Missionari Identes
Roma, 4 febbraio 2024 | V Domenica del Tempo Ordinario
Giobbe 7, 1-4.6-7; 1Corinzi 9, 16-19.22-23; Marco 1, 29-39
Visitando la nostra comunità di Terni (Italia) due settimane fa, ebbi occasione di dialogare con un gruppo della Gioventù Idente. Avevo preparato un dialogo sulla persona di Cristo e ho cominciato con una domanda: Qual era la professione di Gesù? sperando che rispondessero “apprendista falegname” o qualcosa di simile, per portarli poco a poco a vedere la realtà più profonda della sua persona. Ma la mia strategia si trovò fulminata dalla risposta convincente e sicura della prima bambina: La professione di Gesù era l’orazione.
Ascoltando il Vangelo di oggi, noi adulti magari non abbiamo la purezza e la perspicacia di quella bambina e forse possiamo fermarci alla sorprendente serie di prodigi che fece Cristo, curando una moltitudine di malati e cacciando demoni. Tuttavia, c’è un punto che non si può ignorare: Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava.
San Francesco di Sales, con umorismo, paragona l’essere umano ad un orologio da pendolo, dicendo che, indipendentemente dalla sua qualità, deve essere sempre ricaricato ed aggiornato due volte al giorno: una volta alla mattina ed un’altra alla sera. Inoltre, in risposta alla domanda sul modo di fare orazione, rispose: È necessaria solo mezz’ora, ma se sei molto occupato, è necessaria un’ora. Questo riflette il Vangelo di oggi: Gesù non si ritira a pregare quando ha del tempo libero, bensì in mezzo ad un’attività intensa, quando tutti lo cercano.
Sappiamo bene che qui NON si pone un problema di priorità o di utilizzo del tempo. La chiave sta nel vivere uno stato di orazione continua, nel quale ci possono essere momenti che possono durare secondi, minuti, magari un’ora o vari giorni, nei quali ci uniamo con forza a Cristo nella sua supplica essenziale: Conoscere la volontà del Padre. Tuttavia, non perdiamo di vista quello che i Vangeli ci suggeriscono, che Gesù era sistematico nella sua vita di orazione. Durante il giorno predicava, curava… e durante la notte pregava. Questo l’hanno raccolto i Fondatori di tutte le comunità religiose in molti modi diversi.
Per continuare con una delle metafore del santo vescovo di Ginevra, l’orazione deve somigliare a quello che succede in una barca: a volte remiamo con la forza delle nostre braccia e in altri momenti sentiamo la forza dello Spirito Santo che spinge le nostre vele.
Il nostro padre Fondatore non ha mai smesso di insistere sull’attenzione continua, soggetta al silenzio che dobbiamo imporre alle nostre preoccupazioni: Se non avete quell’orazione intima e quella condotta morale integra, in mezzo alla dispersione delle tante cose di ogni giorno, perché sono inevitabili, non lo potrete mai sentire (…) Sappiate che tutta l’orazione di questo mondo si riassume in una sola parola: Padre, ti ascolto (Il Carisma Idente).
Una volta domandarono ad un allevatore perché le sue pecore si perdessero, pur trovandosi dentro un recinto. La sua risposta fu: L’unica cosa che fanno è muoversi mangiando… fino a riuscire a perdersi. Chinano la testa e vagano da una zona verde ad un’altra. Sfiorano un rovo e si allontanano da un’altra parte. A volte arrivano ad un buco nello steccato, l’attraversano, poi però non trovano più il modo di ritornare. Ma c’è un parallelismo tra le pecore e noi: Mangiamo e ci perdiamo; lavoriamo e ci perdiamo; pensiamo e ci perdiamo. Perderci sembra essere la nostra attività preferita. Non guardiamo verso l’alto. Vaghiamo da un’illusione o da un desiderio ad un altro. Mettiamo la testa in un buco e non riusciamo più a vedere la strada del ritorno.
Cristo, insieme ai suoi discepoli, lavorò intensamente, perfino, a volte, senza il tempo per riposare, né mangiare (Mc 6, 31). Ma non si persero, neanche in quel sublime compito di evangelizzare.
Conviene insistere sul fatto che l’orazione non è solo per momenti critici o disperati. Nemmeno è un’esclusiva per persone con difficoltà. Cristo non crebbe in una famiglia anomala, né soffriva conflitti emozionali o disturbi della personalità. Non era depresso, né aveva dubbi sulla sua missione. Tuttavia, Egli pregava e noi no.
Esistono troppi temi nella nostra vita che NON immaginiamo possano trasformarsi in orazione. Questo spiega perché le persone che vivono in orazione si sforzano di spiegare quante siano le strade, quanti siano i modi attraverso i quali l’orazione ci porta ad unirci con le Persone Divine; per questo parliamo di orazione apostolica, di gratitudine, di perdono, di intercessione…ogni istante esige una forma di orazione che, essenzialmente, significa una forma di offerta, come hanno intuito tutte le religioni, offrendo sacrifici di tanti tipi.
Oggi è un giorno veramente adatto a discernere come, in mezzo alla nostra attività e alle nostre preoccupazioni, senza uscire da questo mondo, possiamo condividere tutto con le Persone Divine. Esse si incaricheranno di purificare le nostre intenzioni. Forse, per evitare di perderci come le pecore, il primo passo sarà domandare loro: Come posso ora mangiare, dormire, soffrire, studiare, pulire, passeggiare, parlare, ascoltare, ridere, piangere… e fare in modo che serva per qualcosa nel tuo regno?
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La Seconda Lettura si inserisce bene con la descrizione, che fa oggi il Vangelo, dell’attività di Gesù. Anche San Paolo si sente spinto senza scelta ad annunciare il Vangelo che una volta odiava e perseguitava. Molti di noi non sentono questa passione, questa necessità profonda. Alcuni cristiani e religiosi desiderano annunciare il Vangelo “per essere sempre più numerosi”, o perché realmente parlano bene e si sentono bene nell’essere ascoltati, o per obbligo. San Paolo confessa che non lo fa per piacere, né per ricevere una paga o un premio.
Senza utilizzare parole strane, né sofisticate, San Paolo riconosce che il premio ricevuto è precisamente… annunciare il Vangelo. Non è difficile comprenderlo. È la soddisfazione di chi sa che sta facendo il più grande bene possibile. Un professore che finisce soddisfatto la sua lezione, un medico che completa con successo la sua operazione o uno scrittore che termina un romanzo che lo compiace, si sentono gratificati… ma hanno sempre l’impressione di poter fare qualcosa di più grande.
Andando oltre le attività professionali, le madri e i padri che si sacrificano per un figlio, accettando lavori molto duri, l’ingratitudine o la solitudine, o la persona che si dedica tutto il giorno a curare un malato, che richiede attenzioni fisiche, affettive e spirituali, sentono che la loro vita è piena, benché sia piena anche di scomodità e progetti non realizzati.
Il dare testimonianza del Vangelo, con la parola, essendo un esempio di misericordia o perdonando qualunque offesa, è un privilegio che ci fornisce il massimo livello di pienezza, perché certamente esige la donazione totale della vita.
Ovviamente, non tutti i chiamati a diffondere lo spirito evangelico sono disposti a vivere col distacco dai loro giudizi, dai loro desideri e dalle intenzioni parallele, il che porta sempre a qualche forma di scandalo, in particolare una doppia vita che esce sempre allo scoperto con effetti devastatori.
In alcuni paesi, o in certe culture, è facile che una persona consacrata approfitti di questa condizione, perché rappresenta uno status sociale o apporta alcune comodità materiali notevoli. Questo è solo uno dei modi in cui si può corrompere la missione di trasmettere il Vangelo e oggi San Paolo mette in evidenza questo pericolo, dicendo che porta a termine la sua missione, gratuitamente, senza usare il diritto che mi dà la predicazione del Vangelo. Per altri, la corruzione può consistere nel fatto che la loro predicazione, o la loro vita in apparenza consacrata, è solo un modo di eludere la responsabilità che richiede una famiglia o un lavoro esigente.
Quando mi sento – come San Paolo, come la suocera di Pietro – entusiasmato col servizio?
– Quando provo che, nonostante le apparenze, il mio sforzo dà sempre frutto, non rimane mai sterile. Benché i miei occhi non vedano la conversione di una sola persona, il seme non morirà. Rimane negli occhi e nel cuore delle persone il fatto che un altro modo di vivere è possibile, perché Cristo è una figura storica che, inoltre, diventa visibile in chi è fedele.
– Quando ricordo che non sono solo a svolgere il mio compito, e che, nonostante le mie limitazioni ed i miei peccati, è lo Spirito che rende possibile la mia perseveranza. L’essere cosciente che posso essere strumento utilizzato da Dio per attrarre a sé le persone, non è paragonabile ad un’altra consolazione, indipendentemente che viva questo compito con grande paura e tremore: Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2, 3-5).
– Quando mi rendo conto che NULLA potrebbe sostituire questa missione di vivere e trasmettere il Vangelo, se veramente lo compio col sacrificio della mia vita e della mia fama, il che NON è una possibilità, bensì una costante. L’esperienza dei discepoli confermò la verità delle parole del Maestro. Un giorno domandò loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla» ( Lc 22, 35).
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La Prima Lettura è uno sguardo al problema del male, del dolore, della sofferenza. È qualcosa di antico, di universale e permanente. Ventidue secoli prima di Cristo, un autore egiziano scrisse il conosciuto: ”Dialogo di un uomo disperato con la sua anima”, dove si contempla la possibilità del suicidio.
Nel caso di Giobbe, la disgrazia gli giunge come perdita dei suoi figli, della salute, delle proprietà… ed inoltre sua moglie lo incoraggia a togliersi la vita, poichè, come i quattro amici che visitano Giobbe, anch’ella pensa che tutto sia una punizione di Yahvè, secondo la terribile interpretazione della malattia e del dolore che imperava in quel tempo.
Ovviamente, è ammirevole la fede e la pazienza di questo colosso dell’Antico Testamento che trova in questo mondo la consolazione e la conferma che Dio l’ascolta, l’accompagna e non è l’origine di nessuna maledizione.
Nel Vangelo di oggi, Cristo non dà lezioni sopra il dolore, né lo elimina dalla faccia della terra. Di più, in un altro momento dichiarerà: I poveri li avrete sempre con voi (Gv 12, 8). Contemporaneamente, è sensibile ad ogni sofferenza e per questo motivo cura i dolori fisici e mentali di coloro che a Lui si avvicinano. Tuttavia, subito, decide di andare in altri posti dove sperano di sentire il messaggio che permetterà loro di vivere con speranza in mezzo al dolore e alle difficoltà. Per questo motivo ricorda ai discepoli: Per questo sono venuto.
La suocera di Pietro, che Cristo curò, dovette morire, non sappiamo né come, né quando, ma la cosa certa è che, conoscendo Gesù, si mise a servire, a disposizione degli altri. Questa è la caratteristica più importante di coloro che sono curati da Cristo.
Quelli che soffrono l’abbandono, gli afflitti, i malati, quelli che hanno qualche disabilità, non sono discepoli di seconda classe, ma hanno l’opportunità di mostrare, più chiaramente dei sani, la pazienza e la serenità vissute nella limitazione e nella sofferenza. E, non meno importante, la loro debolezza è una chiamata affinché la nostra tiepida compassione si trasformi in vigorosa misericordia cristiana avvicinandoci a loro. Dio non ci sostituisce, aspetta da noi la pietà attiva che ci trasforma e ci rende autentici messaggeri suoi.
Dobbiamo lottare a tutti i costi contro il dolore e la malattia, ma Cristo si sottomise a terribili sofferenze, dimostrando che il dolore non è un problema da risolvere, bensì un mistero da vivere.
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Nei Sacri Cuori di Gesù, Maria e Giuseppe,
Luis Casasus
Presidente