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di p. Luis CASASUS,  Superiore Generale dei missionari Identes.                

New York,   26 luglio 2020 | XVII Domenica Tempo Ord.

1 Re 3, 5.7-12; Lettera Romani 8, 28-30; S. Matteo 13, 44-52

Nel film Amelie, del 2001, una giovane trova una piccola scatola di latta piena di tesori dell’infanzia dietro una piastrella caduta dalla parete del suo appartamento in affitto. Un po’ di attività investigatrice la porta fino ad un uomo che visse nell’appartamento quando era bambino, quarant’anni prima, ed ella colloca la scatola dove sa che egli la troverà. Aprendo la scatola e vedendo il suo contenuto, l’uomo si sente invaso dalla nostalgia rivivendo tutta la sua infanzia in un momento. 

Un bambino ha i suoi tesori. Anche gli adulti, senza dubbio. L’immagine di trovare un tesoro trasmette un messaggio: bisogna scegliere tra cose di poco valore ed il vero tesoro. A volte questa scelta non è tanto facile, perché i nostri cuori sono divisi. Oggi, Gesù ci dice che questo tesoro è il regno dei cieli. 

Cristo descrive il regno dei cieli con molte immagini, dipendendo da quello che voglia far risaltare in ogni momento, poiché questo regno è l’unica realtà che esiste realmente, al di là delle illusioni di questo mondo, la bellezza passeggera, l’allegria momentanea che possiamo sperimentare in molti modi. 

Nelle due prime parabole di oggi, paragona questo regno con un tesoro ed una perla, due cose realmente preziose, perché anche il regno dei cieli rappresenta qualcosa che ogni essere umano stima più di qualunque oggetto o attività: godere della migliore compagnia possibile. Allo stesso tempo, questa è la soluzione a quello che gli esseri umani temono di più: la solitudine, la separazione, l’isolamento. 

Chi possiede la sapienza divina, che non è di questo mondo, si trasforma realmente in una luce per le persone che non sono chiuse in loro stesse. Questo successe a Salomone quando fu visitato dalla Regina di Saba: «… Sia benedetto il Signore tuo Dio, che si è compiaciuto di te sì da collocarti sul trono di Israele. … e ti ha stabilito re perché tu eserciti il diritto e la giustizia». (1 Re 10, 8-9). 

Qui, la sapienza rappresenta la presenza del nostro Padre celeste. Ovviamente, non è qualcosa di astratto o una conoscenza elevata. È un vero possesso di nostro Padre celeste, nel senso che posso parlare con Lui quando voglio, come fece Gesù. Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto…». (Gv 11, 41-42). 

Come arriviamo a quel regno? 

Il primo problema è che, ovviamente, alcune cose, molto poco preziose, possono abbagliarci. 

Cristo sa che questo può succederci e per questo motivo ci consiglia di essere prudenti: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 19-21). 

Nella Prima Lettura, Salomone chiede a Dio il dono di poter distinguere il bene dal male. La risposta del Signore è di soddisfazione a questa richiesta, poiché è qualcosa che non possiamo ottenere con le nostre proprie forze, con la nostra esperienza o con la nostra buona volontà. 

Che cosa può competere nei nostri cuori col regno dei cieli? Non solo una tentazione occasionale, bensì qualcosa che si trasforma nel nostro idolo. 

Per noi che viviamo nelle civiltà moderne, non è sempre facile capire il potere dell’idolatria. Ma ci sono idoli per la società ed idoli per ognuno di noi. Per esempio, la scienza e la tecnologia possono trasformarsi in idoli nella nostra cultura, pretendendo di spiegare tutto ed essere capaci di fornire la soluzione a qualunque problema materiale, emozionale e spirituale dell’uomo. 

Ma ancora più pericolosi sono i nostri idoli personali che sono invisibili e che costruiamo a poco a poco, come successe ad Israele quando cominciò a servire gli dei stranieri, per esempio, con l’adorazione di Baal, una divinità pagana, che implicava rituali sessuali, inquinando la purezza della fede di Israele. 

Il problema con l’idolatria è che andiamo assomigliando e alla fine ci convertiamo in quello che veneriamo. Un esempio apparentemente superficiale è quando un giovane dice che una stella della canzone “è il suo idolo”. Non solo ripete le sue canzoni, ma anche il suo modo di vestire, di pettinarsi, di parlare, di trattare gli altri, per molto volgare o negativo che sia. 

Ma questo succede anche a gente colta ed intelligente che finisce adorando le proprie idee. Questo fu il caso dell’influente filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900) che disse: 

La persona nobile sente che ella stessa determina i valori, non ha bisogno dell’approvazione di nessuno, giudica che “Quello che è dannoso per me è dannoso in se stesso”, sa che ella è, in primo luogo, colei che dà onore alle cose, ella crea i valori. Ella onora tutto quello che vede in se stessa: questa classe di moralità è (Al di là del Bene e del Male: Preludio ad una Filosofia del Futuro). 

Questa è la descrizione di una razza idolatra che fa un idolo di se stessa. Non fu sorprendente che Nietzsche finisse cadendo negli artigli di una grave malattia mentale. 

Un altro aspetto di questa idolatria dell’io si esprime nell’esagerata attenzione alla “immagine di se stesso” ed alla “autostima”. L’autostima si capisce a volte come “una fiducia e soddisfazione solo in se stessi”. A volte si usa nel contesto della psicologia e del counseling (consultazione ed orientamento), dove i problemi delle persone si attribuiscono in ultima istanza ad una brutta immagine di se stessi, e nel contesto dell’educazione, dove i cattivi risultati accademici degli studenti si considerano con troppa frequenza come risultato della bassa autostima degli studenti. 

Possiamo menzionare molti esempi dell’individualismo moderno che c’invade, come una forma in più di egoismo ed orgoglio che corrompe in modo permanente l’essere umano. 

Quando ci dedichiamo a potenziare il nostro ego, allora quell’ego si gonfia. Noi ci trasformiamo sempre di più nell’egoista che adoriamo, facendo in modo che quell’ego appaia ogni volta più importante attraverso l’attaccamento ai nostri giudizi (corretti o scorretti) e desideri (buoni o cattivi). Tuttavia, questa è un’espansione artificiale che non può portare a nessun significato o soddisfazione finale, ed inevitabilmente crollerà. 

Ma c’è un buon amor proprio che cerca quello che realmente ci farà felici; è amare noi stessi desiderando trasformarci in quello che Dio vuole che siamo. Così, in realtà, non si può più chiamare “amore proprio”. Amare il prossimo come se stesso (Lc 10, 27) non include il comandamento di amare se stesso, ma presuppone il fatto che tutte le persone vogliono il meglio per la loro esistenza, questo è il presupposto per amare gli altri, cioè, dobbiamo volere il meglio per gli altri, come vogliamo il meglio per noi stessi. 

La chiave di questo problema è che l’essere umano realmente ha bisogno di adorare qualcosa o qualcuno. E come conseguenza, benché non sia cosciente di ciò, si trasforma in un riflesso di quel qualcosa o qualcuno. Dio ha fatto gli uomini affinché noi riflettiamo Lui, ma se noi non ci impegniamo con Lui, non rifletteremo Lui, ma solo una qualunque altra cosa della creazione. 

È per questo motivo che leggiamo oggi nella Seconda Lettura: “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”.  In fondo al nostro essere siamo creature di immagini. Non è possibile essere neutrali su questo tema: o riflettiamo il Creatore, o riflettiamo qualcosa della creazione. È responsabilità degli apostoli di ieri e di oggi promuovere questa potestà, come lo fu dei profeti dell’Antico Testamento. Questo è un bel modo di descrivere la nostra vocazione. 

Perfino Confucio disse che la libertà proviene dall’essere fedeli alla nostra vocazione, non dalle lodi o dalle critiche degli uomini. Solo allora saremo veramente liberi. 

Un’altra difficoltà è che, per strano che possa sembrare, possiamo stancarci del tesoro e cambiarlo con qualunque cianfrusaglia. Quella stanchezza non è momentanea, né circostanziale. È una profonda stanchezza, legata al timore dello sforzo che ci attende nel futuro. 

Tutti ricordiamo la storia di Esau e Giacobbe, e come Esau abbia rinunciato ai suoi diritti di primogenito, apparentemente per un piatto di cibo, perché aveva fame alla fine della sua permanenza lontano da casa. Ma il tema è più complicato.

Esau ritornò dai campi dopo avere commesso vari crimini gravi. Trovò suo fratello Giacobbe mentre stava cucinando le lenticchie, un piatto che si serviva a coloro che erano nel dolore. Esau rinunciò alla sua primogenitura, non per un piatto di lenticchie, bensì perché non desiderava quella sofferenza che sapeva che l’avrebbe accompagnata. 

Per questo motivo ci sono tante rotture nei matrimoni e nella vita dei religiosi. Quante volte, nei momenti di difficoltà e quando il peso della nostra vocazione è opprimente, ci sentiamo con una voglia di abbandonare, specialmente quando le cose diventano difficili. Questo è così in particolare quando siamo incompresi, accusati falsamente e trattati ingiustamente. Sicuramente, molte volte nelle nostre vite, quando stiamo passando un brutto momento col nostro coniuge o con le persone care, non vogliamo istintivamente lasciare tutto? Non è questo quello che significa la purificazione dei sensi e dello spirito? 

Ma prendere la strada più facile non ci darà la felicità. Sarebbe come essere infedeli a se stessi, non solo a Dio. Ricordate il film del Re Leone, come Simba cercava di scappare dalla sua identità e dalla sua chiamata ad essere il Re. Solo accettando la sua chiamata ed essendo fedele alla volontà di Dio, poteva ritrovare se stesso. 

È importante capire la minaccia che presuppone la terza parabola, quella dei pesci “buoni e cattivi”. Il linguaggio a tinte drammatiche era destinato ad essere compreso dagli ebrei, ma non si deve sottovalutare il significato dell’avvertimento, né esiste alcuna contraddizione con la misericordia divina di Dio “…che non vuole che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pt 3, 9). 

Questa parabola ha per scopo il mettere in rilievo l’importanza del momento attuale e l’urgenza delle decisioni che bisogna prendere oggi. Ogni momento sprecato si perde definitivamente e gli errori commessi in questo mondo avranno conseguenze eterne. La possibilità di dissipare, scialacquare la propria esistenza centrandola su tesori sbagliati è tutto… meno che remota. Solo i buoni entreranno nel cielo, tutto il negativo sarà annichilito in primo luogo… dal fuoco dell’amore di Dio. 

Entrare nel regno dei cieli è una vera ed ardua conquista, qualcosa che facciamo giorno dopo giorno con la grazia. Chi ha pazienza con la sua povertà, benché non diventi ricco, conquista un regno (Fernando Rielo. Trasfigurazioni). 

Finiamo con un’osservazione ed un consiglio di Papa Francesco, che ci ricorda che ricevere il regno dei cieli non è qualcosa che succede solo una volta nella vita, ma rappresenta il modo continuo e completo di relazionarsi con Dio – nella purificazione e nell’unione – tutti i giorni: 

 “Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta.  Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore»” (Evangelii Gaudium 3).