“Questo umile cappuccino che ebbe la grazia di attrarre innumerevoli persone alla fede, è stato considerato il padre dei peccatori e dei disperati, cacciatori e rifugio di bricconi e malviventi”.
Fonte: ZENIT, edizione spagnola.
Autrice: Isabel Orellana Vilches
Traduzione: Maurizio Calanchi
Quando a 30 anni bussò alle porte del convento dei cappuccini a Torino si era già consacrato come eccellente predicatore di esercizi e missioni coi gesuiti di Vercelli. Essendo parroco di Casanova Elvo, e precettore dell’insigne famiglia degli Avogadro di Vercelli, aveva rinunciato perfino ad un canonicato in Santhià, e non voleva continuare a compiere la propria volontà, bensì quella di Dio. Per questo motivo, davanti al provinciale si gettò in ginocchio dicendo: “Padre, in tutto quello che ho fatto fino ad ora ho la sensazione di avere praticato sempre la mia volontà. Una voce interiore mi sta ripetendo che per servire veramente il Signore devo compiere la sua volontà, devo essere soggetto all’obbedienza”. Questa era la chiave, e mise tutto il suo impegno nel compierla in totale fedeltà ed allegria per cinquantaquattro anni, portando la sua vivenza oltre quello che gli fu affidato esplicitamente.
Lorenzo Maurizio, che era il suo nome di battesimo, nacque a Santhià (Piemonte, Italia) il 5 giugno 1686. Apparteneva ad una agiata famiglia ed era il quarto di sette fratelli. Morendo suo padre quando aveva 7 anni, ricevette l’istruzione dalle mani di un sacerdote che ebbe influenza sulla sua vocazione sacerdotale. Fu seminarista nella sua città natale, e completò gli studi a Vercelli. Ricevette l’ordinazione nel 1710. Dopo cinque anni di esercizio pastorale, entrò nei cappuccini di Chieri, Torino, in mezzo all’incomprensione di parenti e parrocchiani. Lì prese il nome di Ignazio da Santhià. Lo destinarono successivamente a diversi posti, tra gli altri, Saluzzo, Chieri, Mondovì, Ivrea, Torino… svolgendo differenti missioni. Fu prefetto di sacrestia, direttore di accoliti, vicario e maestro di novizi, cappellano militare e confessore. Lo fu visto sempre centrato nell’orazione, alla quale dedicava molte ore giornaliere adorando il Santissimo Sacramento, con uno spirito di servizio e disponibilità ammirevoli; costituiva un autentico riposo per i suoi superiori.
I religiosi delle comunità per i quali passò, e le genti delle località nelle quali visse e quelli che stavano introno, riconoscevano in lui l’autentico discepolo di Cristo: sereno, prudente, accogliendo con gioia ogni missione, compresa l’elemosina, aperto ad ascoltare le pene altrui dentro e fuori del convento, tanto in confessione come in altre circostanze scelte dalle persone che a lui accorrevano. E’ stato chiamato “il padre dei peccatori e dei disperati” perché apriva le sue braccia a chiunque senza distinzione, con pietà, carità e misericordia, senza giudicare la gravità delle azioni: tutto quello che aveva imparato pregando davanti al crocifisso. Come maestro di novizi e direttore spirituale non aveva prezzo. Con tenerezza, comprensione e rigore, saggiamente dosato, guidava gli aspiranti per l’autentico sentiero della santità, incidendo sulla necessità dell’obbedienza: “Obbedienza! Obbedienza! Che cosa più gradita possiamo offrire a Dio se non la nostra obbedienza?”. Tutti potevano accorrere a lui purché ne avessero bisogno; tutti sapevano che egli sarebbe stato lì aspettandoli sia di giorno che di notte. “Il paradiso – affermava – non è stato creato per i pigroni; pertanto, impegniamoci. Rifuggi da chi ha optato per una regola austera, un’eccessiva preoccupazione per fuggire dai patimenti, dato che la sofferenza è propria della sequela di Gesù. Se il Sommo Pontefice di Roma ci regalasse un pezzetto della Santa Croce, ci sentiremmo molto onorati per simile deferenza, e la riceveremmo con somma riverenza e devozione. Dunque, Cristo Gesù, Sommo Pontefice, c’invia dal cielo una parte della sua croce mediante le sofferenze. Portiamola con amore e sopportiamola con pazienza, grati per simile favore”.
Aveva la ferma convinzione che l’autorità morale è quella che commuove veramente, ed andava sempre davanti nella vivenza delle virtù che proponeva per essere esercitate. Umilmente pregò i novizi che non avessero difficoltà a fargli vedere le mancanze che avesse potuto commettere. Se nella sua acclamata predicazione, parlando con rigore evangelico, qualcuno poté interpretare che alludeva ai suoi superiori, subito lasciava ben chiaro quello che illuminava le sue intenzioni: “Io parlo di tutti e di nessuno, e quanto dico l’ho letto previamente nel crocifisso”. Ricevette diversi doni, tra gli altri, quello dei miracoli; uno di essi fu “riscattare” della cecità fisica il novizio Bernardino dà Vezza, offrendosi a Dio di prendere su di sé la malattia che, come pregò, lo colpì. Migliorò con trattamenti, ma non recuperò mai la visione al cento per cento. Abnegato, eroico nella sua attività, per questa consegna alla quale non diede importanza, con grande umiltà e semplicità normalmente diceva: “qualcuno deve portare la croce”. Poi, premiato per la sua generosa donazione, fu mandato missionario nel Congo.
Nel 1744 durante la guerra contro gli eserciti franco-spagnoli agì come cappellano dalle truppe del re Carlo Emanuele III, nel Piemonte, dando esempio per due anni di carità con i malati, i feriti e i reclusi per malattie contagiose. Terminando la contesa, tornò a Torino, al convento del Monte, dove passò gli ultimi venticinque anni della sua vita predicando, impartendo esercizi spirituali, spiegando la dottrina, incoraggiando e confessando. Era da decenni che si era trasformato in un famoso direttore spirituale, a cui accorreva sia la nobiltà (membri della casa Savoia), importanti prelati e sacerdoti, sia il popolo semplice nel quale prevaleva la sua fama di santità. Tutti l’avevano in alta stima. Un marchese che conosceva bene la grazia che l’accompagnava per attrarre alla Chiesa i lontani, alludeva a lui con affetto, considerandolo “cacciatore e rifugio di bricconi e malviventi”. Morì il 22 settembre 1770.
Paolo VI lo beatificò il 17 aprile 1966. Giovanni Paolo II lo canonizzò il 19 maggio 2002.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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