“Fondatrice delle carmelitane scalze, dottore della Chiesa, la prima donna che ricevette questo alto onore. Apostola instancabile, scrittrice, poetessa, mistica eccezionale. E’ una delle grandi maestre di vita spirituale”.
In questo mese di ottobre missionario l’agiografia ci offre la vita di due insigne carmelitane, entrambe di nome Teresa che unirono a Gesù. Teresa di Lisieux del cui cammino spirituale si fece puntuale eco questa sezione di ZENIT alcuni giorni fa, e la fondatrice Teresa de Cepeda y Ahumada, considerata una delle grandi figure della Chiesa, di potente influsso su santi e beati. Impossibile precisare il numero di persone anonime che la scelsero e continuano a prenderla come modello, ma sicuramente sono moltitudini. Si sono scritte tante riflessioni intorno a lei che niente di nuovo si può aggiungere. Seguiamo ammirati della sua donazione, ringraziando Dio per la sua feconda esistenza.
Nata il 28 marzo 1515 ad Avila (Spagna), aveva una personalità impattante. Donna di spinta, audace, sognatrice, apostola instancabile, mistica e dottore della Chiesa, prima donna a cui fu conferito tanto alto onore, scrittrice, poetessa…, ha ottenuto che la sua vita e l’opera che mantiene la sua freschezza originale, prosegua in alto su questo “podium” di santità. Si innamorò precocemente di Cristo, e volle spargere il suo sangue per Lui cercando di essere martire all’età di 6 anni; fuggì perciò con suo fratello Rodrigo, ma li ripresero. La vita eremitica fece parte dei suoi giochi infantili. Poi, passò un tempo tra vaneggiamenti, presa dal contenuto di libri di cavalleria ed il corteggiamento di un parente. Sua madre morì lasciandola sola alla difficile età di 13 anni. Internata da suo padre ai 16 anni nel Collegio di Grazia, diretto dalle madri agostiniane, sentiva la mancanza di suo cugino che era il pretendente che la richiedeva.
Benché si trovasse in contatto con la vita religiosa, il mondo continuava a disputarla a Cristo; essere suora non era nei suoi piani. Fino a che nel 1535, dopo avere visto partire Rodrigo, sposarsi una delle sue sorelle, e un’amica entrare nel monastero dell’Incarnazione, parlando con quest’ultima scoprì la sua vocazione, ed entrò nel convento nonostante l’opposizione paterna. Una grave malattia la restituì alle braccia di suo padre nel 1537. Lottò contro la morte e, anche se le rimasero degli strascichi, vinse, attribuendo la guarigione a san Giuseppe. Nel 1539 ritornò all’Incarnazione. La vita nel convento era, come oggi si direbbe, troppo “light”. Tanta apertura e comodità, entrate e uscite, non erano precisamente la cosa più adeguata per una consacrata. E nella Quaresima dell’anno 1544, quello della morte di suo padre, davanti all’immagine di un Cristo piagato, con ardenti lacrime supplicò il suo aiuto; l’inorridiva offenderlo.
Il suo amore era veemente, senza cedimenti, alimentato attraverso un’orazione continua: “L’orazione non consiste in pensare molto, bensì in amare molto”. Cominciò a sperimentare la vita di perfezione come salita della sua anima a Dio, ed allo stesso modo riceveva la grazia di vedersi avvolta in mistiche visioni che incendiavano il suo cuore, benché ci fossero grandi periodi temperati da un’intensa aridità. Sussurri della sua passione impregnavano le sue giornate di orazione: “Vivo senza vivere in me, e tanto alta vita spero che muoio perché non muoio…”. Chiedeva fervidamente la croce quotidiana: “Croce, riposo saporito della mia vita, Voi siete la benvenuta […]. Nella croce c’è la vita, e la consolazione, ed ella sola è la strada per il cielo…”.
Verso il 1562 visse l’esperienza mistica della trasverberazione: “Vedevo un angelo venire verso di me al lato sinistro, in forma corporale, quello che normalmente non vedo se non per meraviglia. […] Non era grande, bensì piccolo, bello molto, il viso tanto acceso che sembrava uno degli angeli molto saliti che sembrano che si incendiano tutti. Devono essere quelli che chiamano cherubini. […] Gli vedevo nelle mani un dardo d’oro lungo, e infine del ferro che mi sembrava avere un po’ di fuoco. Questo mi sembrava che mi metteva a volte nel cuore e che mi arrivava alle viscere. Tirandolo fuori, mi sembrava che se le portasse via con sé, e mi lasciava tutta infocata dell’amore grande di Dio.”
In un’altra delle visioni le fu dato di contemplare l’inferno. Fu tanto terribile che determinò il rigore della sua donazione ed intraprese la riforma carmelitana così come la sua prima fondazione. Aveva 40 anni, e Dio continuava a segnarle la strada che doveva seguire. San Giovanni della Croce si unì al suo impegno. La riforma non fu facile. Le prove di ogni indole, insidie del diavolo, contrarietà, problemi interni, dubbi e vacillazioni del suo stesso confessore, come il trattamento ostile dispensato dalla Chiesa, tra gli altri, le inflissero grandi sofferenze. Nonostante la sua fragile salute, aveva un potente temperamento e non si lasciava scoraggiare; meno ancora, quando si trattava di Cristo. Cosicché, arrivò fino alle alte classi sociali, frequentò re e nobiltà, fu dove era necessario, e si donò in corpo e anima a tutelare e ad arricchire spiritualmente le fondazioni con le quali irrigò la Spagna. Tutte nacquero ad impulso dallo stesso Dio che le ispirava.
Era un’eccezionale formatrice. Aveva un’anima missionaria; pianse amaramente pensando alle necessità apostoliche che c’erano nelle terre americane, dove avrebbe voluto andare. Plasmò le sue esperienze mistiche in opere maestre, imprescindibili per illuminare l’itinerario spirituale come “Il cammino della perfezione”, “Pensieri sull’amore di Dio” e “Il castello interiore” che non le vide pubblicate in vita. L’Inquisizione le stette addosso; bruciò perfino uno dei suoi testi per suggerimento del suo confessore. Fortezza e chiarezza, capacità organizzativa e sapienza per esercitare il governo, fiducia ed interezza nelle contrarietà, umiltà, semplicità, sagacità, senso dell’umorismo, una fede e carità eroiche sono tratti che la definiscono.
Devotissima di San Giuseppe diceva: “chiedo solo per amore di Dio che lo provi chi non gli crede e vedrà per esperienza quanto gran bene è raccomandarsi a questo glorioso Patriarca ed avere devozione per lui”. Unì magistralmente contemplazione ed azione. Ricevette doni diversi: estasi, miracoli, discernimento… Morì ad Alba di Tormes il 4 ottobre 1582.
Paolo V la beatificò il 24 aprile 1614. Gregorio XV la canonizzò il 12 marzo 1622. Paolo VI la dichiarò dottore della Chiesa il 27 settembre 1970.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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