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Santo

San Serafino di Montegranaro, 12 ottobre

By 11 Ottobre, 2024No Comments

“Frate laico cappuccino. Fece della povertà il centro e il segno della sua vita; possedeva un crocifisso di ottone, un rosario, un mantello logoro e un cuore tanto grande che non gli stava nel petto. Fu gratificato con il dono dei miracoli”

In questa festività di Nostra Signora di Aparecida, e della Vergine del Pilar, patrona dell’ispanità, tra gli altri santi e beati la Chiesa celebra anche la vita di questo umile cappuccino.

Felice era nato a Montegranaro (Marche, Italia) nel 1540. Suo padre, un modesto muratore, dovette tirare avanti con quattro figli. Serafino fu il secondo e soffrì per anni la penuria economica della famiglia ed il trattamento dispotico e violento di suo fratello maggiore, Silenzio, che si accanì su di lui quando rimasero orfani. Una ragazzina, Lisa, fu il suo particolare “angelo protettore”. Portò con lei l’aria diafana dell’ideale religioso leggendogli le vite dei santi. Fu la causa di domande profonde che si formulò per la prima volta: –“E che cosa dobbiamo fare per salvarci? Credo che la cosa migliore per me sia ritirarmi in un deserto e fare vita di penitenza”. Con la lucidità che germoglia dall’innocenza evangelica, Lisa rispose: –“Per quale motivo vuoi un deserto? Vai a vivere coi cappuccini, e sarai santo”. Serafino seppe dell’esistenza di questi religiosi e della vita che portavano avanti attraverso il racconto che ella fece. In quell’epoca già stava coltivando quella santità che avrebbe abbagliato le genti in mezzo alla complessa relazione con suo fratello, la durezza del suo lavoro come muratore, trasportando sulle sue spalle un peso sproporzionato, e soffrendo le battute di altri compagni. La sua anima trasparente era una simbiosi di offerta e sacrificio.

A 18 anni andò al convento di Loro Piceno, cosciente delle sue molte deficienze umane: distratto, lento, trascurato, smemorato, rozzo…. Ma aveva la cosa essenziale, come rivelano le umili parole che diresse al portinaio che gli aprì la porta: –“Padre, io non so leggere né scrivere; non so fare altro che pregare ed amare Dio”. Fece il noviziato a Jesi e mostrò l’autenticità della sua vocazione. Lo vedevano pregare per ore davanti al sacrario, aveva vero spirito penitenziale, e forgiava il suo futuro con digiuno e mortificazioni. Egli stesso progettò cilici per le severe discipline che applicò a sé, spinto dalla convinzione che erano un bene per la sua anima. Quando un superiore l’invitò a moderarle a beneficio della sua salute, rispose: –“Senta un po’! Se io muoio, ci sarà un peccatore di meno nel mondo”. Per quarant’anni soffrì disprezzo ed umiliazioni dentro e fuori del convento, rafforzandosi nella virtù della pazienza. E riuscì ad accettare le sue debolezze. Fu un maestro della carità. Rispondeva benevolmente quando era oggetto di beffa: “molto bene, molto bene. Tu mi conosci meglio di nessuno. Così bisogna trattare i peccatori come me. Dio te ne renda merito, mio santo, Dio te ne renda merito”.     

Alla fine, e vedendo che non riusciva nelle missioni che gli furono affidate, fu destinato all’elemosina. Ma questo religioso che non si distinse precisamente per la sua efficienza, siccome era un santo, fu benedetto con diverse esperienze mistiche: estasi, visioni e miracoli. Aveva il dono di arrivare alle genti che guidava a Dio. Amava profondamente la Vergine e diffuse la sua devozione negli altri. Era fedelissimo alla vivenza evangelica; non commise mai volontariamente un peccato veniale, né consentì nel suo ambiente compromessi al riguardo. Sentiva profonda pietà per i malati e i moribondi. E quando fece miracoli, portato dalla sua umiltà, tentò di nasconderli. Accettava le sue limitazioni pieno di mansuetudine: “Non possiedo niente; ho solamente questo crocifisso ed il rosario, ma con essi, se Dio mi aiuta, servirò da aiuto ai fratelli, e diventerò santo”. Con la penetrazione che dà l’autentica vita spirituale mostrava il suo crocifisso di ottone per ricordare ai predicatori che la chiave di tutto si trova in lui: “Questo è il vero libro che conviene studiare per fare predicazioni vantaggiose per i popoli”.

Era felice con la sua povertà. Possedeva un manto logoro che una volta dovette rimpiazzare temporaneamente, sostituendolo con uno nuovo per indicazione di un superiore che volle provare la sua obbedienza. Quel giorno sopportò con gioia le battute di coloro che, abituati al suo umile saio, si sorpresero nel vederlo chiedere elemosina per le strade di Ascoli con inusuale “eleganza”. Oppresso dalla gente che lo cercava per la sua fama di miracoloso, (che era diventata manifesta non solo con le persone ma anche con gli animali che ammansiva), sentiva la mancanza della solitudine e del silenzio. I suoi superiori gli proibirono di fare prodigi. Siccome però non era in suo potere evitarli, chiedeva discrezione a quelli gratificati: “Va, e rimani zitto, zitto, santo, perché non sono stato io, ma è stato Cristo e la tua fede quelli che ti hanno curato.”    

Tutto il suo percorso evidenzia che era agli antipodi dell’immaturità spirituale. Riflette la grandezza di un’anima penitente, dedita, generosa, distaccata da sé. Ciò si percepisce anche nei suoi costanti destini; fu un religioso che passò per molti conventi. A nessuno negò il bene che poté fare, cominciando dall’infondere a quelli che a lui accorrevano in massa la fiducia in Dio e nella sua divina Provvidenza. Gli fu rivelata l’ora della sua morte e attese con gioia il momento. Aveva sessantaquattro anni pieni di lavori e severe penitenze. Allegro e lucidamente candido, come sempre era stato, rispondeva alla domanda dei suoi fratelli che si informavano sulla sua salute: “Molto bene; presto andrò in cielo.”   

Agli inizi di ottobre del 1604 ammalò, e si alzò solo il giorno 12 di quel mese, alcune ore prima di morire. Previamente, ebbe la grazia di aiutare a messa, comunicarsi e anche chiedere l’elemosina. Tanto è vero che pensando che si sarebbe ristabilito ritardarono nell’amministrargli i sacramenti. Ma egli sapeva che era alle porte del cielo, e supplicò: “datemi il mio Dio, portatemi il mio Gesù. Prima della notte sarò morto”. E così fu.

Clemente XIII lo canonizzò il 16 Luglio 1767.

 

© Isabel Orellana Vilches, 2018
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