di padre Luis CASASUS. Presidente dei Missionari Idente.
Roma, 4 Dicembre 2022 | Seconda Domenica di Avvento.
Isaia 11:1-10; Romani 15:4-9; Matteo 3:1-12.
Non abbiamo bisogno di sapere se San Giovanni Battista commise molti peccati o nessuno. C’è un segno nella sua vita che è immediatamente chiaro per i suoi contemporanei e per noi: La sua vita diede frutti perché si sottomise ad una conversione. Questo è quello che San Matteo dice oggi di lui. Fu fedele a quello che diceva il profeta Isaia: lasciò la sua vita più o meno comoda, andò nel deserto, visse austeramente e dedicò tutto il tempo agli altri, proclamando con umiltà che le chiavi dell’autentica perfezione non le aveva lui, bensì uno che sarebbe venuto dopo di lui ed era più grande di lui.
Questo sforzo continuo per dedicare la propria conversione a “i buoni frutti”, cioè, la gioiosa conversione del prossimo, è una caratteristica dei santi, del santo che dobbiamo essere tu e io. È relativamente facile (e per alcuni, gradevole) organizzare attività, vivere una vita ordinata di studio o insegnamento, di laboriosità, nella quale i talenti diventano visibili. Ma la gioiosa conversione degli altri, esige un unico ingrediente in più: la mia personale conversione. Nella pratica, non sentiamo che la conversione vada unita al compito dell’apostolo. Ci limitiamo a pensare, e a dire, che la vita apostolica “esige molta orazione”.
Un esempio notevole. Santa Teresa d’Avila, la celebre santa spagnolo, visse alla fine della tarda epoca medievale. Fino ad allora, la gente in maggioranza riconosceva Dio come colui che dava senso all’universo e all’esistenza umana in particolare.
La Riforma ruppe l’unità della fede in Europa. Il periodo moderno che cominciò col Rinascimento e poi con l’Illuminismo, diede luogo ad una nuova forma di vedere la relazione tra Dio e l’uomo.
La nuova messa a fuoco nella scienza, insieme all’entusiasmo per i viaggi delle scoperte, diede luogo ad una nuova fiducia nel potere della ragione umana. A poco a poco si cominciò a sviluppare una nuova visione del mondo. Non esisteva più nessuna verità, salvo quella scientifica; tutto il resto, compresa la fede in Dio, era solo un’opinione e, ovviamente, tutto il mondo aveva diritto ad avere la sua opinione. La gente incominciò a pensare che erano gli esseri umani coloro che davano senso alla propria esistenza. Dio venne relegato ad un mondo spirituale che era abbastanza separato dal mondo in cui la gente viveva e lavorava.
[Santa Teresa] benché vivesse una vita contemplativa di clausura, si preoccupava attivamente per il benessere delle sorelle dei monasteri sparsi in tutta la Spagna, e non era per nulla lontana dalle preoccupazioni del mondo che la circondava, al di fuori del monastero.Comprese che qualunque riforma istituzionale doveva cominciare con la conversione personale. Viveva già una vita religiosa impegnata nel convento di Avila, ma ogni volta era più cosciente della difficoltà di trovare l’intimità con Cristo tra le distrazioni di un convento dalla vita frenetica, nel quale il fare poteva sembrare più importante dell’essere. Teresa sentì che stava vivendo la sua vita religiosa con un certo grado di tiepidezza, e senza quell’attenzione che l’avrebbe portata più vicina a Dio. Voleva avvicinarsi a Cristo con tutto il suo essere, e questo è il vero significato della conversione.
Cercò un posto più piccolo e tranquillo, ed uno stile di vita più semplice che riteneva più concorde con la tradizione ermetica carmelitana. Alla fine, si trasferì al di fuori del convento di Avila e, con altre persone, stabilì una comunità più piccola nelle vicinanze.
Credo che l’esempio di Santa Teresa sia particolarmente interessante, perché era una persona attiva e pratica, ma seppe comprendere la priorità della propria conversione su qualsiasi altra iniziativa… e tutti sappiamo quali frutti diede questo deciso atteggiamento, per il Carmelo e per tutta la Chiesa.
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A volte, la nostra esperienza e i nostri migliori atteggiamenti non sono sufficienti ad ottenere frutti … manca una qualche forma di conversione, di pentimento. Qualcosa bisogna lasciare, qualcosa bisogna abbandonare in noi, qualcosa che sembra far parte della nostra vita e frequentemente pensiamo che non sia possibile o necessario lasciarlo. Quelle che sono madri possono ricordare i molti sacrifici che suppone portare una nuova vita in grembo, dare alla luce ed allevare il bambino. La nuova vita ed il sacrificio vanno di pari passo. Non si può avere l’una senza l’altro.
Così lo riconosceva Papa Francesco alcuni anni fa:
La condizione per entrare a fare parte di questo regno è compiere un cambiamento nella nostra vita, cioè, convertirci. Convertirci ogni giorno, un passo avanti ogni giorno. Si tratta di lasciare le strade, comode ma ingannevoli, degli idoli di questo mondo: il successo ad ogni costo, il potere al prezzo dei più deboli, la sete di ricchezze, il piacere a qualunque prezzo. E tuttavia di aprire la strada al Signore che viene: Egli non ci toglie la nostra libertà, ma ci dà la vera felicità (4 DIC 2016).
C’è una storia dei Padri del Deserto simile al racconto della donna adultera trascinata davanti a Cristo.
Un fratello di un certo monastero cadde in disgrazia. Si presentò davanti al superiore del monastero e insieme a lui vennero molti fratelli che, desiderando riportarlo alla disciplina monastica adeguata, l’opprimevano con rimproveri.
Era presente anche un altro monaco anziano e raccontò ai fratelli una parabola che non avevano mai sentito prima. “Vidi”, disse, “sulla sponda del fiume un uomo infossato nel fango fino alle ginocchia; alcuni si avvicinarono con le braccia tese per tirarlo fuori, ma lo affondarono fino al collo”.
Allora il superiore esclamò: “Ecco qui una persona che può curare veramente l’anima”. Sentendo queste parole, i fratelli si commossero, si pentirono del loro esagerato atteggiamento e riportarono il fratello traviato nella comunità. Con uno spirito simile, un altro fratello disse: “Una parola orgogliosa e malata convertirebbe gli uomini buoni in cattivi, ma una parola buona ed umile convertirebbe gli uomini cattivi in migliori”. Ed un altro monaco, facendosi eco delle parole di Gesù, aggiunse: “Il demonio non può espellere i demoni”.
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Specialmente noi, missionarie e missionari identes, potremmo domandarci: Qual è il modo più chiaro, più esplicito, in cui il nostro padre Fondatore ci parla del potere di questa conversione? Nella mia opinione, quando ci invita a vivere il vero Rinnegamento Evangelico nelle sue tre dimensioni: i miei giudizi, i miei desideri ed il mio istinto di felicità.
È impossibile “annichilire” i miei giudizi, desideri ed istinto di felicità. Non si tratta di questo, dunque, perché, come succede coi nostri pensieri, anch’essi sono tre processi continuamente attivi. Per questo motivo, la conversione deve essere permanente, costante, un vero Canone nella vita ascetica. Alcuni di noi possiamo pensare che si tratta di uno sforzo da realizzare in certi momenti dove le passioni affiorano con forza.
Non è così. Non è solo questo. Se ricordiamo che la parola “conversione” significa tra le altre cose “girare, volgere lo sguardo”, capiremo che si tratta di uno degli sforzi supremi dell’asceta, liberare gli occhi dell’anima dalle tante attrazioni che ci assorbono, senza entrare nella loro caratterizzazione morale. Solo così permetteremo a Dio (sì, hai letto bene) che si manifesti attraverso la nostra vita. Il nostro padre Fondatore lo spiega con precisione quando parla della Purificazione che lo Spirito Santo realizza continuamente in noi: Dio non vuole, non può accettare, neanche per la sua stessa essenza, che ci uniamo [con Lui] se non è con vincolo in Cristo, Figlio unigenito e primogenito di tutti gli esseri umani (15 GEN 1983). Lo Spirito può tutto, ma si impegna a farlo CON NOI: così si producono i frutti nella vita dell’apostolo.
Alcuni pensano che questi consigli relativi al rinnegamento e alla rinuncia vogliono dire che la vita spirituale deve essere un tema mancante di allegria. Ma, in realtà, quanto più rinunciamo ai divertimenti che stanno al di sotto della nostra dignità, tanto più spazio avremo per un’allegria più profonda e duratura. Ci sono grandi allegrie che, di fatto, danno gloria a Dio quando le condividiamo. C’è anche una dolcezza che si prova nel portare segretamente l’allegria agli altri, benché probabilmente quelli che ci hanno preceduti nella fede sorrideranno quando parliamo di questo anticipo della nostra patria celestiale. Godiamo delle opere meravigliose di Dio perché, per molto comode e piacevoli che siano in sé stesse, ci innalzano dall’auto-preoccupazione fino al nostro vero proposito, e facendolo ci aiutano a contemplare lo splendore di Colui, alla cui immagine siamo stati creati.
È certo che il Natale è tempo di allegria, ma l’Avvento ha una forma di gioia spirituale che sicuramente San Giovanni Battista sperimentò quando vide che la sua radicale conversione, materiale e spirituale, realizzata nel deserto, lo aveva portato ad essere strumento della Provvidenza, comprovando che accorrevano a lui persone da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano, e, confessando i loro peccati, erano battezzati da lui nel fiume Giordano. Senza preoccuparci dei numeri, noi possiamo sentire la stessa gioia quando, più modestamente, col nostro digiuno e penitenza, riusciamo ad aiutare una o migliaia di persone a incontrare la persona di Gesù.
Il Battista c’insegna a non scoraggiarci quando, a volte, ci sentiamo come una voce che grida nel deserto. Sicuramente intuì, col passare del tempo, come sarebbe stata la fine dei suoi giorni, ma ricevette da Dio la consolazione di vedere i suoi discepoli avvicinarsi a Cristo. Questa deve essere la consolazione di noi, come apprendisti apostoli, come discepoli missionari, come dice Papa Francesco.
Magari capissimo che Cristo, l’uomo più lontano dal peccato, si trasformò continuamente in questo modo nel suo passaggio per questo mondo.
Vorrei che anche noi osassimo sperimentarlo così, anche un po’ di più, in questo Avvento.
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