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Santo

Beato Ceferino (Zefirino) Gimenez Malla, “El Pelé”, 2 agosto

By 1 Agosto, 2024No Comments

“Primo gitano beatificato. Solidale, caritatevole e conciliatore. Martire della fede. Fucilato, con un rosario tra le mani, tra le mura di un cimitero, dopo aver difeso un sacerdote”.

Questo uomo grande ed umile che diede prove della sua forza spirituale, fedele difensore della fede fino a spargere il suo sangue nella contesa spagnola del 1936, è stato il primo gitano beatificato. Il 4 maggio 1997 quando Giovanni Paolo II l’innalzò agli altari, una scia di giubilo si estese per gli angoli del mondo, specialmente tra la razza calé, benché la gioia provenisse da tutti i luoghi. Quel giorno il pontefice ricordò che Zefirino “seppe seminare concordia e solidarietà tra i suoi, mediando anche nei conflitti che appannano a volte le relazioni tra contadini e gitani, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di né di razze né di culture.”     

Si crede che sia nato il 16 agosto 1861 a Benavent de Segriá (Lerida, Spagna), benché fosse battezzato a Fraga, Huesca. Così come i suoi genitori ricevevano il soprannome di “el Tichs” e “la Jeseía”, già da bambino cominciò ad essere conosciuto come “el Pelé”. Nel loro ambiente l’articolo che anteponevano al nome è segno di semplicità, un’abitudine attecchita nel tempo che si incarna come qualcosa di naturale. Tanto ordinario nella sua vita come il nomadismo scolpito negli umili carriaggi che continuano a portarli da una parte all’altra. Lo scenario dello scorrere della sua vita furono le strade, gli intricati e bei sentieri delle montagne aragonesi che percorreva coi cestini fabbricati da lui per la vendita. Così aiutava sua madre che un giorno si svegliò con un vuoto nel letto e nel cuore, perché il capofamiglia li aveva abbandonati. Fu uno zio, stabilito a Barbastro che insegnò al Pelé a realizzare l’artigianato del vimini, il suo primo mestiere. In questa località di Huesca si stabilì con sua madre e i fratelli nel 1880; fu il luogo dove visse fino alla fine dei suoi giorni.  

Seguendo la legge gitana si sposò con questo rito con la catalana Teresa Jiménez Castro, del suo gruppo etnico. Aveva circa 20 anni. Dopo, nel 1912, il matrimonio si effettuò nella Chiesa cattolica. A questa la condusse un docente universitario, Nicolás Santos de Otto che lo istruì nelle verità essenziali della fede. Teresa, donna lavoratrice e di spinta, aveva ricevuto una formazione basilare che le permetteva di destreggiarsi con la lettura e la scrittura. Invece Zefirino era analfabeta. Sensibile e di gran cuore seppe comprendere subito la portata di quello che andava imparando. Si caratterizzava per la sua generosità; i bisognosi trovavano sempre in lui una mano amica a cui poter accorrere perché le sue donazioni non mancavano loro.    

Nella splendida terra di questo uomo, onesto e preciso, germinarono i semi che erano stati depositati in lui. Si andò vincolando alla Chiesa, e progressivamente accrebbe la sua devozione per l’Eucaristia e per la Vergine Maria. Nel frattempo il suo buon mestiere come commerciante di bestiame di cavallerie, facendo affari in diverse località, lo portarono ad uno status economico di un certo livello. Come sua moglie e lui non ebbero discendenti, adottarono una nipote, “la Pepita”, e Teresa si interessò affinché ricevesse una formazione che pochi del suo gruppo potevano sognare allora.    

A Zefirino toccò vivere in un’epoca convulsa, dedita alle questioni, che seppe neutralizzare promuovendo la pace e concordia tra i suoi concittadini e quelli dei paesi vicini. Accorrevano a lui tanto i gitani come i contadini perché tutti l’avevano giudicato come un uomo di legge. Tuttavia, in un momento dato fu ingiustamente accusato di un furto nel Vendrell e lo reclusero nella prigione di Valls. Dà una idea del giusto rispetto che si era guadagnato e l’alta reputazione che aveva, il clamore del suo avvocato che, difendendolo, esclamò: “Il Pelé non è un ladro, è san Zefirino, patrono dei gitani”. Il suo esempio era nitido e trasparente, non dava luogo a dubbi: assisteva alla messa e pregava giornalmente il rosario, riceveva frequentemente la comunione ed era prodigo nella sua carità. Lo vedevano partecipare ai giovedì eucaristici, l’Adorazione notturna, le Conferenze di San Vincenzo de Paoli e nel Terzo Ordine Francescano, perché di tutte queste associazioni era membro. Era anche catechista di bambini ai quali trasmetteva quella saggezza invidiabile che possiedono le anime semplici ed innocenti come la sua. Di modo che il fatto di non avere cultura non fu impedimento affinché l’accogliessero quelli che ebbero la fortuna di riceverla.    

Ma alla fine di Luglio del 1936, avvicinandosi il vivo fragore della guerra, vide come un gruppo di rivoluzionari miliziani trascinavano un sacerdote per le strade. Contemplò inorridito lo scherno e, senza pensarci due volte, andò in sua difesa. Dal più profondo di se stesso sorse questa esclamazione: “Vergine, aiutami! Tanti uomini armati contro un sacerdote indifeso!”. Per quel gesto valoroso e giusto, fu fermato ed imprigionato. L’odio è cieco ad ogni rispetto; non capisce e non guarda l’età. Zefirino aveva allora 75 anni; non era un bambino. Ma i miliziani non si preoccupavano di questo e di altri estremi perché l’ingiustizia che accompagna la barbarie è così. E vedendo che portava un rosario nella tasca, come si faceva coi primi martiri della fede vollero negoziare la sua vita; gli offrirono la libertà se si impegnava a smettere di pregarlo. Il beato si negò in modo molto chiaro, benché sapesse che con ciò avrebbe dato spazio alla sua morte.     

Per poco tempo condivise il minuscolo spazio di 5 metri quadrati abitato dal terrore dell’ordinario, e dalla speranza delle quindici persone che l’accompagnarono in quegli ultimi istanti, incamminandosi insieme a lui ad ottenere la palma del martirio. A Barbastro, l’alba del giorno 2 o del 9 agosto, lo condussero al cimitero fucilandolo vicino ai muri di cinta. Le sue ultime e trionfanti parole martiriali, pronunciate col rosario tra le mani, furono: “Viva Cristo Re! “. Insieme a lui giustiziarono altri venti carcerati, tra i quali persero la vita anche i tre superiori del seminario claretiano che dirigevano la chiesa alla quale andava Ceferino.

© Isabel Orellana Vilches, 2018
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