Un giovane aristocratico che trasgredì la volontà di suo padre per unirsi a Cristo. Conosciuto come il Giobbe della Toscana per la sua mirabile pazienza esercitata per venti anni mentre la lebbra consumava il suo organismo
Oggi la Chiesa celebra la vita di questo beato, e commemora, tra gli altri, la festività della Vergine di Guadalupe, venerata in tutto il mondo e della cui apparizione a san Juan Diego e l’origine della sua invocazione si è dato conto in questa sezione di ZENIT lo scorso 9 dicembre. È la patrona del Messico ed è stata oggetto di diverse proclamazioni da parte di pontefici. Così Pio X la nominò “patrona di tutta l’America Latina”; Pio XI, “di tutte le Americhe”; Pio XII aggiunse la qualifica di “Imperatrice delle Americhe”; Giovanni XXIII aumentò denominandola bellamente: “la missionaria celeste del Nuovo Mondo e la Madre delle Americhe”.
Ammirevole nella sua virtù, Bartolomeo (o Bartolo) fu un esempio di forza e pazienza in mezzo alla tribolazione, edificante nel suo modo di affrontare la malattia. Si ignora la data esatta nella quale i conti di Mucchio, Giovanni e Giuntina, tennero nelle loro braccia per la prima volta questo erede, unico loro figlio. Venne al mondo nel castello feudale vicino alla città di San Gimignano (Toscana, Italia) nel 1227. La creatura si fece pregare, poiché i genitori sperarono per vent’anni di avere discendenza, fino a che Giuntina, la pia madre, si raccomandò a san Pietro ed un giorno, attraverso un sogno, il santo le assicurò che la sua supplica era stata ascoltata.
Come solitamente succede, nel genitore del beato albergavano grandi sogni per il suo futuro: studi, prestigiosa carriera professionale, ecc. Pensò anche che con quel figlio che li colmava di fortuna, era assicurata la prosecuzione del suo illustre cognome attraverso nuovi rampolli nella famiglia. Per questo motivo, quando arrivò il momento, e Bartolomeo si rifiutò di contrarre il matrimonio che gli si proponeva, optando invece per la vita religiosa, il conte Mucchio ricevette la notizia più che costernato, e non nascose la sua totale opposizione. Sicuramente non gli venne da pensare che la virtù e la pietà che presiedeva la vita del suo amato figlio, conosciuta nel suo ambiente, sarebbe andata a confluire in tale decisione. Ma ebbe occasione di comprovare l’inutilità dei mezzi che usò per dissuaderlo; Bartolomeo non desistette dal suo impegno.
Mettendo distanza in mezzo, il giovane si trasferì a Pisa e passò un anno convivendo con la comunità benedettina di San Vito, dove svolse lavori di infermeria. Il suo buon cuore e le virtù che mostrava lo rendevano adatto ad incarnare con la sua vita il carisma di san Benedetto, e così fecero notare i monaci. Non disistimava totalmente l’offerta di continuare insieme ad essi, possibilità sulla quale meditava, quando in sogno ebbe una locuzione divina che lo avvisava che la vera chiave della sua santificazione si sarebbe radicata nell’accettazione di venti anni di sofferenze che sarebbero arrivati nella sua vita, e non nel suo abbraccio alla vita monastica. Misteriosi disegni della Provvidenza.
Conosciuto che il suo abito sarebbero state le penitenze, partì per Volterra e si integrò nel Terzo Ordine Francescano (ora Ordine Francescano Secolare OFS). Il prelato del posto giudicò che sarebbe stato un buon sacerdote e gli propose di ordinarlo. Docile al suggerimento del vescovo, frequentò gli studi e ricevette il sacramento dell’ordine quando aveva circa 30 anni. Fu inviato a Peccioli in qualità di cappellano, e poi a Picchena come parroco. Il suo lavoro pastorale e zelo apostolico insieme alla sua eroica carità che aveva come destinatari i poveri, i malati e i bisognosi in generale, attrasse le genti. Attento alle sue necessità distribuiva tra tutti quello che riscuoteva nella parrocchia. Il suo gesto di misericordia fu premiato dall’Altissimo. Un giorno accolse un povero che era in viaggio riparandolo sotto il suo tetto. Di buon mattino una voce gli fece sapere che aveva alloggiato Gesù Cristo, e quando corse a cercarlo, era sparito. Non sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe ricevuto questa grazia.
La notizia della sua santità arrivò alla sua città natale, e conosciuto ciò, uno dei suoi compatrioti, Vivaldo (o Ubaldo), anch’egli beato del Terzo Ordine francescano che era nato a San Gimignano verso il 1250, non dubitò di accorrere al suo fianco. Fu non solo il suo discepolo ma anche una specie di angelo protettore nelle dolorose tribolazioni che dovette affrontare Bartolomeo quando contrasse la lebbra verso i suoi 50 o 52 anni. Lasciò allora la parrocchia, ed ambedue si stabilirono nel lebbrosario di Cellole, situato nei paraggi della sua città natale. Un giorno arrivò un lebbroso che Bartolomeo aiutò a risciacquare i piedi nella grotta del chiostro, e facendolo si rese conto che non era semplicemente un malato, momento nel quale sparì. Allora capì che aveva lavato i piedi a Cristo.
Per venti anni, come gli fu vaticinato in sogno, soffrì questa malattia, accolta con tanta mirabile pazienza ed allegria, conforme al carisma francescano che gli diedero il nome di “Giobbe della Toscana”. I lebbrosi del lazzaretto ricevettero da lui che fu il suo cappellano, e dal beato Vivaldo, assistenza e consolazione. Morì con fama di santità il 12 dicembre 1300 all’età di 73 anni. Allora Vivaldo si fece eremita stabilendosi in Boscotondo di Camporena, vicino a Montaione nella Toscana. Sopravvisse al suo maestro venti anni. Bartolomeo fu sepolto nella chiesa di Sant’Agostino di Gimignano.
Il suo culto fu approvato nel 1498. Pio X lo confermò il 27 aprile 1910.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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