“Questo grandioso gesuita è il paradigma di ogni missionario. Esalò il suo ultimo respiro a pochi chilometri dalla Cina: il paese che sognò di evangelizzare. E’ patrono universale delle missioni, dell’Oriente e della Propagazione della Fede
L’alba del 3 dicembre 1552 gli occhi di questo ardente apostolo si spensero in un’umile capanna di paglia dell’allora inospitale isolotto di Shangchuan, situato a 14 km. della costa della Cina, il paese che desiderava evangelizzare. Ma con la sua vita, costantemente offerta per amore di Cristo in una parte del grande continente asiatico, aveva già lasciato scritta una delle pagine singolarmente più feconde della storia missionaria della Chiesa. Poco si può aggiungere su di lui in questa sezione di ZENIT che già non si conosca.
Si sono versati fiumi di inchiostro in tutti gli angoli del mondo illuminando una delle traiettorie apostoliche più appassionanti che siano esistite. Il passo dei secoli ha accentuato la taglia gigantesca di questo gesuita che sognò, respirò, si alimentò, e si esaurì portato unicamente da questa passione che sentiva per Cristo, battito del suo immenso cuore. È un indiscutibile modello e referente dell’apostolo che si propone portare la fede in qualunque paese. E’ possibile evangelizzare solo se si ama la missione ed il luogo nel quale questi è inviato, come fece il santo. Le sue lettere e scritti sono certamente commoventi; trasudano carità e passione a fiumi.
Nacque nel castello di Javier (Navarra, Spagna) il 7 aprile 1506. Era l’ultimo di cinque fratelli venuti al mondo in una nobile famiglia che prestava servizi al re. Suo padre, Juan de Jasso, era un illustre giurista che ebbe incarichi rilevanti nel regno. E nella stirpe di sua madre, Maria Azpilicueta, si trovavano vari re. A differenza dei suoi due fratelli maschi, Francisco Javier non volle seguire la carriera delle armi, bensì l’ecclesiastica. La sua gioventù trascorse in mezzo a conflitti bellici che colpirono direttamente la sua famiglia.
Dopo avere frequentato studi in Spagna, nel 1525 partì per Parigi, per andare alla Sorbona. Lì, un forte compaesano, con una profondità spirituale che il santo non aveva mai visto prima, fece attenzione a lui. Era il nobile Iñigo di Loyola che si rese conto che il suo giovane e elegante compatriota non era facile da convincere, e lo contraddiceva frequentemente: “che serve all’uomo guadagnare tutto il mondo se perde la sua anima?”. Perché Francisco Javier frequentava posti chiassosi, e, senza cadere nella viltà, perdeva il tempo infossato in banali divertimenti. Alla fine comprese, e realizzò insieme ad Iñigo gli esercizi spirituali. Poi, facendo parte dell’Ordine gesuita che nasceva allora, emise i voti il 15 agosto 1534 a Montmartre. Era l’inizio del suo passaporto per l’eternità.
Andò in Italia insieme ad Iñigo per vedere il papa Paolo III che li benedisse affinché effettuassero il viaggio in Terra Santa, ma la guerra li ostacolò. Nel frattempo, Francisco Javier fu ordinato sacerdote a Venezia nel 1537. Evangelizzò i luoghi intorno, tra gli altri Bologna. Di nuovo a Roma, ed essendo nominato dal pontefice suo legato per evangelizzare l’Oriente, si imbarcò verso Lisbona nel 1540. Era la risposta del papa alla richiesta fatta dal governo portoghese che sollecitava l’invio di missionari alle colonie che stavano sotto la sua protezione. Nel 1541, lo stesso giorno nel quale compiva 35 anni, il santo si imbarcò diretto a Goa. Fu un viaggio pieno di difficoltà e soprassalti. Convivendo con persone socialmente conflittuali, affrontò malattie, malesseri fisici ed ogni tipo di precarietà che si possa immaginare, sorti in quella traversata per mare, tanto lunga e scomoda in quei tempi. In questo complesso scenario evangelizzò tutti.
Quattro grandi viaggi segnarono la vita di questo instancabile apostolo, benché ce ne sono stati altri, di ordine forse minore, ma che mostrano il suo affanno missionario. Dopo essere approdato in Mozambico, andò in India, nelle isole Molucche, in Giappone e di nuovo in India. Combatté con vigore l’immoralità di governanti e truppe, imparò le lingue di questi posti, e tradusse testi evangelici che ripeteva fino alla sazietà in qualunque angolo. Si faceva largo agitando con brio una campanella: “Cristiani, amici di Gesù Cristo, per amore di Dio, inviate i vostri figli e schiavi alla dottrina”. Era un eccezionale catechista; lasciava i bambini assorti sceneggiando il vangelo ed avvolgendo il suo lavoro con cantici e preghiere. Il suo ardore apostolico infiammava il loro cuore: “Se non trovo una barca, andrò nuotando”, diceva. Difese i diritti degli schiavi ed oppressi, visse esposto ad innumerevoli pericoli; non si scoraggiò mai. Convertì e battezzò migliaia fino a rimanere sull’orlo dell’estenuazione, senza abbassare la guardia in nessun istante. Tra i convertiti si trovavano componenti di tribù come i paravas, i makuas e perfino gli inquietanti samurai. Consolò i malati, e visse come i più poveri.
Soffrì la tragedia dell’assassinio di 600 cristiani, un momento delicato che gli fece esclamare: “Sono tanto stanco della vita che la cosa migliore per me sarebbe morire per la nostra sacra fede”. Nel suo cuore era presente la Cina quando si dispose a partire per quel paese nell’aprile del 1552. Il viaggio fu ricolmo di contrattempi; si vide abbandonato anche dai suoi, ad eccezione del giovane interprete ed amico cinese Antonio. Mentre aspettava di potere essere trasportato clandestinamente nell’isola di Shangchuan, scriveva lettere. L’ultima fu il 13 novembre 1552. Confidava a due gesuiti: “Sappiate per certo una cosa e non dubitate che al demonio pesa grandemente che quelli della Compagnia del nome di Gesù entrino in Cina […]. In questo non abbiate dubbi; perché gli impedimenti che mi ha posto e pone ogni giorno, non finirei mai di scriverli…”.
E fu così che diciannove giorni più tardi si ammalò gravemente e morì in solitudine. Dice la tradizione che nel castello di Javier, il Cristo “sorridente”, davanti al quale la sua famiglia pregava sempre, pianse la sua morte. Il suo corpo incorrotto si venera a Goa. Era stato premiato con esperienze mistiche, dono di lingue e di miracoli. Gregorio XV lo canonizzò il 12 marzo 1622. Benedetto XIV lo proclamò patrono d’Oriente nel 1748. Pio X nel 1904 lo designò patrono della Propagazione della Fede e patrono universale delle missioni.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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