Benedettina. Una vita eroica, piena di religiosa bellezza. Per settanta anni seppe offrire a Dio quotidianamente i lavori della vita ordinaria. I suoi miracoli fecero si che, a grande richiesta popolare, venisse seppellita nella chiesa
Che la santità non abbia bisogno di ostentazione alcuna, né debba venire accompagnata da gesta rilevanti lo prova la vita di molti insigni seguaci di Cristo. Per colui che aspira a raggiungere la migliore dimora nel cielo, passare per questa valle di lacrime avvolto nell’anonimato, nascosto in Dio, è contare su uno dei grandi regali dei quali può godere già sulla terra. In fin dei conti, vivrà eternamente preso dall’amore di Dio con assoluta esclusività tra la pleiade di beati che l’aspettano. Arriviamo nel mondo senza abbigliamenti di nessun tipo e quella stessa nudità che ci accompagnerà nella morte, solo la misericordia divina l’avrà potuta coprire, nel massimo senso dell’espressione.
Il merito indiscutibile di questa beata italiana radica nell’avere saputo compiere giorno per giorno la sua missione, con piena fedeltà, negli umili compiti che le affidarono, nel silenzio del chiostro, senza altra aspirazione che quella di essere santa, unico tesoro per il quale si donò nella sua vita consacrata. Sufficiente prodezza, senza alcun dubbio. C’è un alone di innegabile grandezza nell’essere riuscita a realizzare i degni lavori di filare, lavare, cucire e rammendare che sono tanto routinarie, con la gioia e semplicità con il quale ella lo fece per settanta anni. Cioè, ella rese soprannaturale l’ordinario, come hanno fatto altri santi e sante.
Nacque nella località italiana di Veroli (regione Lazio) il 10 febbraio 1827. La sua casa era diretta da un padre che non era precisamente un modello di virtù. La ludopatia e l’alcool affondarono il commercio di Luigi Viti, un prospero commerciante, e rovinò la vita di sua moglie Anna Bono e dei suoi nove figli. Anna Felicia fu la terza dei fratelli. A 14 anni perse sua madre – il cui cuore non aveva resistito a tanta sfortuna e venne meno quando aveva 36 anni di età – ed ella dovette sostituirla nella cura della numerosa prole. La situazione era di grave carenza in tutti gli ambiti, una difficile congiuntura creata dai vizi di suo padre. Per resistere a tanta miseria e alla fame che soffrivano, poiché il suo genitore continuava ad essere schiavo delle sue assuefazioni, Anna Felicia lavorò come domestica al servizio di una famiglia di Monte San Giovanni Campano. In quel momento il suo lavoro era praticamente l’unica entrata della casa. E questo fu lo scenario della sua vita fino ai 24 anni.
Le si presentò l’occasione di sposarsi con un cittadino di Alatri che la corteggiò e le offrì un futuro promettente poiché possedeva abbondanti beni, ma la generosa giovane sognava la vita religiosa e lo respinse. Tante sofferenze avevano affinato il suo amore per Cristo e con Lui era stata capace di accettare quotidianamente la benedizione di suo padre, al quale baciava rispettosamente le mani senza censurare nel suo cuore quell’avanzo umano, così era diventato, catturato dalle debolezze e dominato dal suo cattivo carattere.
Il 21 marzo 1851, all’età di 24 anni, quando vide che i suoi fratelli erano ben avviati, Anna Felicia entrò dalle benedettine nel monastero di Santa Maria, di Veroli. Professando prese il nome di Maria Fortunata. Le penose circostanze che segnarono il periodo precedente della sua vita le impedirono di formarsi adeguatamente. Di modo che, entrando nel convento, era una completa analfabeta. Non potendo occuparsi di compiti liturgici nel coro, fu destinata a realizzare lavori domestici che portava a termine col fermo anelito di conquistare la santità. Era la risoluzione che l’aveva condotta al convento e così l’espresse arrivando: “voglio diventare santa”. Era una donna di parola, perché è facile impegnarsi verbalmente, ma bisogna poi dimostrare l’autenticità di quanto detto ogni secondo del giorno. Lo dice il proverbio: “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Ella non dimenticò mai l’obiettivo che si era proposta.
Vivendo eroicamente il “prega e lavora” benedettino, iniziava la giornata nelle prime ore dell’alba per realizzare ogni giorno e con la stessa cornice, senza abbandonare mai la clausura, i routinari compiti che le avevano affidato. Nel suo ambiente ignoravano l’aridità che soffriva questa umile religiosa, ubbidiente, gentile, servizievole, semplice e caritatevole. Con un’intensa vita di orazione e silenzio, Maria Fortunata si prostrava davanti al Santissimo Sacramento, verso cui aveva una grande devozione, dando esempio di fedeltà e donazione. Fu premiata coi doni di miracoli e di profezia. Lasciava trasparire la tenerezza di Dio che si sparge sui suoi diletti figli, illuminando quella strada che percorrono quelli che hanno incarnato nella loro vita le beatitudini: distacco da sé, pulizia di cuore, innocenza, mansuetudine, ecc.
Dio non volle che chi aveva passato più di settanta anni nell’anonimato, giacesse nascosta nella sepoltura comune della clausura nella quale fu sepolta, senza nessun onore e con una certa precipitazione, notando la sua morte avvenuta il 20 di novembre 1922 quando aveva sui 95 anni. Era arrivata a tanto avanzata età angosciata dai reumatismi, e immobile nel suo letto con cecità, sordità e paralisi. Siccome i miracoli cominciarono a prodursi davanti alla tomba, tredici anni più tardi i suoi resti dovettero essere riesumati e sepolti nella chiesa, a furor di popolo.
L’8 ottobre 1967 fu beatificata da Paolo VI che lodò la sua edificante vita di perfezione.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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