di p. Luis CASASUS, Superiore Generale dei missionari Identes.
Madrid, 12 Settembre, 2021. | XXIV Domenica Tempo Ordinario
Isaia 50, 5-9a; Lettera di Giacomo 2, 14-18; San Marco 8, 27-35.
Conoscere una persona, sia me stesso o un altro, non è un compito facile. Il filosofo cinese Lao Tsé (secolo V a.C.) diceva così: Conoscere gli altri è intelligenza; conoscere sé stessi è vera sapienza.
Se ci pensiamo bene, nel testo del Vangelo di oggi, Gesù c’invita a riflettere su entrambe le questioni. Conoscerlo in verità e, con quella premessa, conoscere autenticamente me stesso.
In effetti, si può conoscere una persona a tre livelli. Nel primo, distinguiamo certi tratti come l’apertura, l’intelligenza o l’affettività. In un secondo livello, possiamo conoscere le sue inquietudini o preoccupazioni, cioè, quello che in qualche modo muove la persona: i sogni, i progetti o le paure che ha.
Ma conoscere a fondo una persona significa arrivare a quel centro intorno al quale gira tutto il precedente, a volte inconsciamente, quasi sempre con molti ostacoli. Ma quel “sole”, come il centro di un sistema planetario, è quello che ci permette di comprendere un essere umano. Ovviamente, né lo psicologo più sperimentato, né quelli che amano veramente quell’essere umano, sono capaci di svelare del tutto quel centro, al cui fondo si trova la nostra natura filiale. Questo spiega la risposta di Gesù a San Pietro quando questi gli risponde: Tu sei il Messia. Nel testo di San Matteo abbiamo la frase esatta: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16, 17). Sì, Pietro era aperto alla rivelazione divina.
Per un cristiano, conoscere realmente una persona significa accettare nel suo cuore che, invariabilmente, senza eccezione, quella persona è suo fratello o sorella. Questo cambia tutto. C’è una storia molto conosciuta nella sapienza ebraica per illustrare questo.
Un rabbino si rivolse ai suoi discepoli con la seguente domanda: Quando si sa che la notte è finita ed il giorno è cominciato? Uno degli alunni del rabbino rispose: Quando puoi vedere un albero in distanza e dire se è un melo o un pero. Il rabbino rispose: No. Un altro alunno rispose: Quando puoi vedere un animale in distanza e puoi dire se è una pecora o un cane. Di nuovo, il rabbino disse: No.
Allora, i suoi discepoli replicarono: Allora, quando puoi sapere che la notte è finita ed il giorno è cominciato? Ed il rabbino rispose: Quando puoi guardare il viso di qualunque uomo o donna e vedere che è tuo fratello, che è tua sorella. Perché se non puoi, non importa che ora del giorno sia, continua ad essere notte!
Nella conoscenza di noi stessi e delle persone divine c’è un livello massimo, (poiché quella conoscenza implica l’unione con esse) che si riflette nella Supplica Beatifica. In effetti, la sua prima dimensione, la Beatitudine, è una forma di allegria che non possiamo sperimentare individualmente, da noi stessi, solo quando comproviamo e sentiamo la presenza divina nei momenti più difficili, modificando in me il modo di vivere la virtù e rendendo sempre più esplicita la mia vera Aspirazione. L’altra faccia della moneta è l’Afflizione che si manifesta come la mia vera e più profonda preoccupazione, quel dolore agrodolce che paragonavamo all’inizio ad un “sole” che illumina e dirige tutti i miei pensieri, desideri ed azioni. È il terreno dove si manifestano le Beatitudini e la mia progressiva identificazione con la vita delle persone divine, nonostante la mia piccolezza.
È giustamente così. L’autentica conoscenza di chi siamo passa attraverso la conoscenza di Dio. La verità è che se non conosciamo il Padre, neppure conosciamo la nostra identità come i suoi figli. Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui ( 1Gv 3, 1).
Inoltre, negare o ignorare nel mio cuore la divinità di Cristo significherebbe che non conosco il Padre. Disse a Filippo: Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse (Gv 14, 10-11).
Se ognuno di noi guarda la sua personale vocazione di seguire Dio (e tutti l’abbiamo in un modo o nell’altro) ci rendiamo conto che c’è sempre qualcosa che non comprendiamo del tutto. A volte è qualche parte dei piani divini, quella che ci spaventa, come successe a Pietro nella storia di oggi. Altre volte, è la nostra mancanza di bontà e sensibilità, nel non ascoltare la voce divina come dovuto, e di quello ci parlava il Vangelo della domenica scorsa. Questa mancanza di visione può darsi in molti modi, ma si utilizza sempre positivamente nella purificazione che lo Spirito Santo realizza in noi.
In qualsiasi caso, nella nostra conoscenza incompleta di Gesù, noi diciamo lo stesso che dicevano prima gli apostoli: Da chi altri potremo sentire parole di vita eterna?
Quella fu l’esperienza di un santo vescovo nell’epoca delle grandi persecuzioni. In viaggio verso Roma, dove fu gettato nell’arena e avrebbe sparso il suo sangue per dare testimonianza della sua fede, Ignazio di Antiochia, nell’anno 110 d.C., scrisse ai cristiani della capitale dell’impero: Ora incomincio ad essere discepolo. Aveva dedicato molti anni della sua vita ad incoraggiare, come vescovo, le chiese della Siria e, tuttavia, solo in quel momento, durante il tragitto che lo portò al martirio, incominciò a sentirsi discepolo. Era sicuro di non sbagliarsi: andava col Maestro, verso la Pasqua.
Di fatto, la Seconda Lettura di oggi ci chiarisce e specifica quello che significa seguire Cristo, secondo quello che Egli stesso insegna: Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Quello che Giacomo ci dice è che la fede in Cristo si dimostra con le opere. Ma quelle “opere” non sono semplici attività, neppure atti di pietà. Sono quello che implica ogni opera di misericordia: dedicare la vita agli altri e, contemporaneamente, donarla. Perderla, è il termine che Gesù utilizza oggi.
Possiamo dire, con certezza, che l’origine di questa misericordia o compassione è la compassione che ho ricevuto da Dio. Questa è la Beatitudine che abbiamo ricordato prima. Non si limita solo all’impressione che Dio cancella le mie mancanze, ma che mi fa veramente figlio suo e, come dice San Paolo, pertanto erede.
I primi discepoli videro nel personaggio del Servo del Signore della Prima Lettura, l’immagine del loro Maestro, Gesù di Nazaret, respinto dai contemporanei, rifiutato ed abbattuto dai dirigenti religiosi e politici del suo tempo, ma riconosciuto e confermato da Dio, attraverso la resurrezione, come il vero vincitore, il vero erede del regno di Dio, di quello stato di grazia, nel quale si può dare la vita in ogni momento. La croce è il segno dell’amore di Dio e della massima donazione di sé stessi. Portarla dietro Gesù significa unirsi a Lui per mettersi a disposizione degli altri, anche fino al martirio.
La compassione è qualcosa di diverso dall’avere pena. I Vangeli ci dicono molte volte che Gesù ebbe compassione di loro perché erano come pecore senza pastore. La pena mantiene una distanza sicura, non rischia niente, e nel peggiore dei casi può essere presuntuosa. Posso dare denaro a qualcuno per strada, ma senza guardare quella persona negli occhi, né parlare con lei, neanche domandare il suo nome. Il mio denaro o la mia attività frenetica sostituiscono la mia attenzione personale e mi danno una scusa per continuare coi miei impegni quotidiani. La compassione evangelica esige che dia la mia vita e questo significa il mio tempo, i miei piani, i miei progetti e le mie preferenze. Tra le altre cose.
La compassione significa avvicinarsi a colui che soffre. Ma possiamo avvicinarci ad un’altra persona solo quando siamo disposti a diventare vulnerabili noi stessi. Una persona compassionevole dice: Sono tuo fratello; sono tua sorella; sono umano, fragile e mortale, come te. Non mi scandalizzano le tue lacrime, né mi spaventa il tuo dolore. Anche io ho pianto. Anche io ho sentito dolore. Possiamo stare col prossimo solo quando questi smette di essere “altro” e si trasforma in mio fratello.
Seguire Cristo significa abbracciare la croce delle mie debolezze ed anche un modo completo e sincero di dare la vita, in modo che il minimo atto di infedeltà, sia di pensiero, azione od omissione, costituisce un messaggio che inviamo a Dio e al prossimo il cui contenuto è: Credo in Cristo, l’ammiro, mi interessa la sua vita, a volte mi serve da modello e ispirazione, ma NON è il centro della mia esistenza.
Ammirarlo, parlare di Lui, non è essere suo discepolo.
In definitiva, la vera prova che crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio vivo, non è una mera professione, bensì vivere in ogni momento, in pubblico o in gran segreto, la vita di Cristo in noi. Quando vivo in Gesù e Lui vive in me, io vivo la vita dello Spirito.
Perché tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Gesù è colui che ci rivela la nostra identità come figli e figlie del Padre. Non solo ci rivelò la nostra identità, ma rese possibile che partecipassimo alla vita del Padre. Quando gridiamo: “Abba! Padre!”, lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. (Rm 8, 15-17).
Nel Giudizio Finale, tutti coloro che non si siano uniti a Cristo, abbracciando la Croce, saranno invitati a manifestare il loro fallimento, a comprovare che hanno sprecato un’opportunità unica che fu offerta loro. Siamo stati creati per vivere per Lui, per seguirlo, per portare gli altri verso di Lui. La nostra vita non è nostra.
Oggi può essere un buon giorno per dedicare alcuni momenti per chiedere a Dio che mi mostri i modi nei quali devo cambiare il mio modo di pensare per poter dare spazio al suo. Dio scelse Israele tra tutte le altre nazioni, non perché si sarebbe imposto per il suo potere, bensì perché era il più insignificante (Dt 7,7). Gesù non vuole portarmi alla morte, bensì alla vera vita. Tuttavia, per raggiungerla, è necessario che passi per molte forme di morte.