“Da una casa poco accogliente, passando per l’asfissia spirituale di un ambiente mondano, trovò la pace e la felicità nel convento parmigiano delle Piccole Figlie dei Sacri cuori di Gesù e Maria”
È certo che l’influsso positivo della famiglia verso la fede ha suscitato numerose vocazioni durante i secoli. Ma tuttavia non è una condizione “sine qua non”. Eugenia che nacque a Crescenzago, Milano, Italia, l’8 novembre 1867, era figlia di un matrimonio disastrato. Suo padre Giuseppe Picco, cieco, fu un importante musicista della prestigiosa Scala di Milano. E sua madre, Adelaide del Corno, si lasciò portare dalla debolezza, che non fu precisamente suo marito, e si arrese alle braccia della fama e degli orpelli, rendendo culto alla vanità e al fulgore del denaro. Instancabile viaggiatrice, cercando forse una felicità che non trovava e che non avrebbe mai trovato nella forma di vita dissipata che normalmente viveva, non si preoccupava di lasciare la piccola ai nonni. Innanzitutto, usciva per accompagnare suo marito, ma quando un giorno ritornò a casa senza di lui (sparito misteriosamente nel corso di un viaggio in Russia), continuò coi suoi eccessi. Ed Eugenia si vide obbligata a sopportare il nuovo compagno di sua madre, col quale questa ebbe altri tre figli, e ad ascoltare, stoicamente, tutti i rimproveri materni che sognava per lei un futuro come artista, oltre a soffrire gli inconvenienti creati dal suo amante.
Senza dubbio nessuna possibilità, questo non era proprio l’ambiente propizio affinché si forgiasse una vocazione. “Pericoli ed occasioni tanto in casa come fuori”, dirà dopo Eugenia. La sua passione da adolescente, incontenibile a 14 anni, si fissò su un ragazzo giovane. Era bella ed elegante; la sua attrattiva si completava con le sue doti per la musica. Disinvolta e libera andava e veniva, immersa nell’ambiente dello spettacolo. Per fortuna, un’insegnante, Giuseppina Allegri, esperta nei conflitti che sorgono a queste età, si occupò di lei. Dovette apprezzare i nobili sentimenti che possedeva ed orientò i suoi passi verso coloro che potevano aiutarla spiritualmente. Allegri le presentò la religiosa Maria Virginia Pizzetti. La beata si convinse della certezza delle parole della religiosa: era Gesù quello che operava dentro di lei; nessun altro. La presenza divina che batteva nel suo cuore, anche senza essere ancora abituata ad essa, la incoraggiava a pregare, credendo e sperando di ricevere una risposta, tanto nella cappella delle sorelle orsoline del Sacro Cuore, come nella basilica milanese di Sant’Ambrogio. Una notte di particolare sofferenza, nella primavera del 1886, attraverso un’immagine che pendeva dalla parete sotto la quale aveva il suo letto, in mezzo alla sua preghiera si sentì chiamata a vivere la santità.
Aveva quasi 20 anni e l’invito di Dio era per lei un torrente di benedizioni. Pensava che la sua vera casa sarebbe stata la Congregazione delle Piccole Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, situata a Parma. Un Ordine verso il quale si incamminò anche per suggerimento delle orsoline che considerarono più opportuno che si integrasse in quella fondazione, valutando il fatto che ciò le avrebbe permesso di scappare dall’ambiente asfissiante che la circondava a Milano. Per portare a termine il suo impegno, nell’agosto del 1887 dovette fuggire dal suo domicilio. Agostino Chieppi, artefice di quella Opera creata nel 1865 insieme ad Anna Micheli, l’accolse paternamente. Si fece carico della sua sofferenza e delle circostanze nelle quali aveva dovuto vivere. E nell’agosto dell’anno seguente cominciò il noviziato. Professò in presenza del fondatore nel 1891 ed emise voti perpetui nel 1894. Il resto della sua vita lo destinò a compiere la volontà di Dio con spirito generoso, fedele, umile… lei stessa sintetizzava il suo anelito, dicendo: “Come Gesù ha scelto il pane, qualcosa di tanto comune, così deve essere la mia vita, comune… accessibile a tutti e, contemporaneamente, umile e nascosta, come lo è il pane.”
Impartì musica, canto e francese alle alunne della scuola della Congregazione. Poi le affidarono successive missioni. Fu maestra di novizie, archivista, segretaria generale e consigliera. Nel 1911 fu eletta superiora generale, incarico che svolse fino alla fine dei suoi giorni. Ottenne che il suo governo desse frutti per la sua carità, prudenza e fedeltà al carisma del suo fondatore. La preghiera e l’Eucaristia furono il suo sostegno. Nel corso della Prima Guerra Mondiale si dedicò a curare i feriti accolti dalla comunità nella casa madre. Ma seguivano anche quelli che erano entrati negli ospedali. Esse insegnavano ai figli dei soldati al fronte poiché questi ragazzi non potevano ricevere formazione. Quelli non possedevano niente, i bambini, quelli che nessuno curava, trovarono in Eugenia una madre. Era straordinariamente sensibile al dolore del prossimo. Sicuro che, in quei giorni funesti, di tanta sofferenza, avrà ricordato vivamente le parole che dirigeva loro il loro fondatore: “Dovete essere pronte per andare perfino sui campi di battaglia”. “Le Piccole Figlie devono essere pronte a donare l’ultima goccia del loro sangue per i fratelli.”
Tutto in Eugenia fu una somma di mortificazione, obbedienza ed innocenza evangeliche. Seppe rendere soprannaturale l’ordinario, con religiosa maestria. Molti le confidavano le loro pene, cercavano il suo consiglio ed uscivano fortificati. Fu una grande formatrice. Non ebbe buona salute, e si debilitò ancora più con le privazioni e i sacrifici. Nel 1919, anno nel quale fu rieletta superiora generale, a causa della tubercolosi ossea le fu amputato il piede destro, un episodio drammatico che accolse serenamente. Mons. Conforti, prelato di Parma, le consigliò paternamente: “Non si governa coi piedi, bensì con la testa”. Certamente. Quello che prima era andare e venire rimase “ridotto”, se così si può dire, all’offerta in stretta preghiera. Niente di più fecondo. Le sequele non l’abbandonarono e morì il 7 di settembre del 1921.
Fu beatificata il 7 ottobre 2001 da Giovanni Paolo II. Nella sua omelia ricordò che “davanti alla sofferenza, con gli inevitabili momenti di difficoltà ed inquietudine che penetra […], seppe trasformare l’esperienza del dolore in occasione di purificazione e crescita interiore”.
© Isabel Orellana Vilches, 2018
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