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Sin categorizarVangelo e riflessione

L’unica cosa che conta è la fede, una fede che opera per mezzo dell’amore (Gal 5, 6)

By 11 Novembre, 2020No Comments

di p. Luis CASASUS, Superiore Generale dei missionari Identes                 

New York/Parigi, 15 novembre 2020 | XXXIII Domenica Tempo Ord.

Proverbi 31, 10-13.19-20.30-31; 1 Tessalonicesi 5, 1-6; Matteo 25, 14-30.

Il significato originale della Parabola dei talenti di oggi è un riferimento agli scribi e farisei, perché avevano conservato il dono di Dio per loro stessi invece di condividerlo con le nazioni. Avevano escluso i peccatori e i pagani dal regno. Moltiplicando le leggi ed applicando una osservanza legalista delle stesse, non solo avevano protetto la loro religione dall’essere inquinata da altri, ma li avevano anche esclusi. Fondamentalmente avevano frainteso la natura di quello che avevano ricevuto. 

La Parabola dei Talenti ha, ovviamente, molte letture ed interpretazioni possibili, ma le sue due conseguenze, morale e mistica, sono chiare: che cosa succede se non usiamo i talenti ricevuti e come risponde Dio se li usiamo veramente. 

La cosa deplorevole è che qualcuno faccia un cattivo uso o non usi i suoi talenti. Quando se ne fa un cattivo uso, si causa un danno a sé stessi e agli altri. Quando non si usa, perfino quello che si ha si perde. Possiamo domandarci perché proprio colui che aveva ricevuto di meno sia stato maldestro e pertanto severamente castigato. Ovviamente, non si tratta di una discriminazione ingiusta da parte del Maestro, bensì di un ritratto di quello che a volte succede ad alcuni di noi: crediamo che quello che possediamo non sia molto prezioso, o sia insufficiente, o sia difficile farlo produrre. In qualunque caso, il problema è che ce lo teniamo per noi stessi. In qualche modo lo seppelliamo. 

Quando agiamo (o, per meglio dire, smettiamo di agire) in questo modo, quello che si rivela è il nostro profondo egoismo. Di fatto, il servo che aveva ricevuto un talento disse che conosceva l’esigente modo di agire del suo padrone, ma anche così non volle disturbarsi a mettere il denaro in banca. Quel servo sapeva che il suo Maestro era capace di ottenere frutti dove nessuno se l’aspettava, ma anche così non voleva darsi da fare. La punizione per aver reso improduttivi i talenti del Signore è l’esclusione dalla sua gioia, è il fatto di non appartenere oggi al regno di Dio. In realtà, è una punizione che noi imponiamo a noi stessi, agendo contro la nostra natura, dentro la quale si trova la compassione come seme dell’autentica misericordia del Vangelo. 

Questa storia, benché sia solo un aneddoto tra due geni, ci mostra il potere dei talenti in azione: 

Einstein era un inveterato amante dei concerti. Assistette al famoso debutto del violinista Yehudi Menuhin con la Filarmonica di Berlino, nella quale il giovane Menuhin, di 13 anni, suonò come solista in un programma di concerti di Bach, Beethoven e Brahms che oggigiorno sarebbe inconcepibile. Einstein si emozionò tanto con l’interpretazione di Menuhin che si affrettò ad entrare nella stanza del ragazzo dopo il concerto e lo abbracciò, esclamando “Ora so che c’è un Dio in cielo!” 

Il filosofo greco Aristotele (384-322 A.C.) intuiva già che la felicità “non è un’abitudine o una facoltà allenata, bensì l’esercizio di una facoltà”. 

Ci sono molti ostacoli affinché i nostri talenti siano usati, per poter dare frutto.  Sicuramente, la prima difficoltà è che non siamo pienamente coscienti che li possediamo. Per questo dobbiamo capire che cosa è un talento. Nella nostra vita spirituale, un talento è tutto quello che si può mettere al servizio degli altri, per avvicinarli a Dio.  Certamente, questo include le abilità, le conoscenze, le grazie ricevute, le fortezze di ognuno… tutto quello che, di origine innata o acquisita, può essere proiettato agli altri e può dar loro luce e forza per avvicinarli a Dio e al prossimo. 

In questo, il ruolo sottile e distruttivo del diavolo è devastatore, perché utilizza molti meccanismi del nostro ego per renderci indifferenti, insensibili e ciechi al vincolo [che c’è] tra le necessità degli altri e i nostri talenti. 

Alcune delle fonti delle resistenze a metterci in moto che hanno più probabilità di accadere sono: 

* Paura di perdere il controllo, davanti all’incertezza del nuovo. Per questo, molti di noi si limitano a ripetere quello che altri hanno detto o a realizzare le attività senza cambiare niente “perché si è fatto sempre così”. 

*Sorpresa. Non siamo preparati al cambiamento e, invece di prepararci per la nuova situazione, ci trinceriamo senza considerare le conseguenze. Le situazioni ci trovano impreparati. Ci manca coraggio per rischiare nella proclamazione del vangelo. Abbiamo paura, come il servo, di avventurarci in territori sconosciuti. 

* Dubbi su noi stessi, sulla nostra capacità e competenza. Senza renderci conto che non siamo il centro dell’universo, e neppure abbiamo idea delle grazie che riceveremo. 

Nel libro Lettere del Diavolo a suo nipote, di C.S Lewis, un diavolo istruisce suo nipote diavolo, Orugario, in una serie di lettere, sulle sottigliezze e le tecniche da usare per tentare la gente. Nei suoi scritti, il diavolo dice che l’obiettivo non è rendere la gente malvagia bensì renderla indifferente. Questo diavolo anziano avverte Orugario che deve mantenere il paziente comodo ad ogni costo. Se incomincia a pensare a qualcosa di importante, incoraggiarlo a pensare ai suoi programmi del pranzo e a non preoccuparsi tanto perché ciò potrebbe causargli indigestione. Poi, il diavolo dà questa istruzione a suo nipote: Io, il diavolo, mi occuperò sempre che ci sia gente cattiva. Il tuo lavoro, mio caro Orugario, è fornirmi gente senza preoccupazioni. 

Al contrario, la Prima Lettura è un canto ad una donna che certamente mette i suoi talenti al lavoro, sempre al servizio degli altri e, in questo caso, con una profonda e femminile sensibilità riguardo alle sue azioni sul prossimo. È il contrario dell’indifferenza: Ella avvicina la sua mano ai poveri, e stende le sue braccia ai bisognosi. 

Più ancora, un talento nell’antichità era una misura di qualcosa di particolarmente pesante, generalmente d’argento o d’oro. Un solo talento poteva rappresentare fino a 25 chili d’oro o argento.  Un talento era una somma che corrispondeva al salario… di circa venti anni di lavoro di un operaio. 

Un antico lettore ebreo avrebbe captato immediatamente la connessione tra la densità e il peso: un talento era qualcosa “di peso”. La pesantezza avrebbe portato alla mente il maggior peso di tutti che fu tradotto in latino come la gloria di Dio. Nella cultura antica, l’immagine era chiara: si tratta di ciò che è consistente e solido in opposizione a quello che è fugace, leggero, quello che il vento si porta via. Non si può cercare la sicurezza e la pace in altre cose. Per questo San Paolo dice nella Seconda Lettura: “E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina …”. E quello che era di maggior peso (più glorioso) di tutto il resto, era la misericordia di Dio. 

I talenti dati ai tre servi rappresentano non tanto capacità o abilità personali; bensì una partecipazione alla misericordia di Dio, nel peso, nella robustezza dell’amore divino. Dato che la misericordia si dirige sempre all’altro, questi “talenti” sono destinati ad essere condivisi. In realtà, aumentano precisamente nella misura in cui si donano. Questo spiega perché Cristo nel Discorso della Montagna dice che i misericordiosi sono beati perché riceveranno misericordia. Quella è la risposta dello Spirito Santo: A chiunque ha, sarà dato di più e diventerà ricco. Notiamo che i talenti si distribuiscono “ad ognuno secondo la sua capacità” e pertanto il frutto prodotto con lo sforzo e la misericordia di ognuno NON ci si aspetta che sia lo stesso. 

Certamente, Dio è stato misericordioso con noi dandoci i mezzi per praticare e sviluppare la misericordia. Questo include buoni contatti, professori, amici, consiglieri, periodi di buona salute, differenti modi di creatività ed intelligenza… e fede. La sapienza di questo mondo e l’esperienza quotidiana ci mostrano che le differenti abilità, come i nostri muscoli, si deteriorano se non le usiamo. Al contrario, la loro crescita e sviluppo richiedono la pratica. 

Il romanziere e vincitore del Premio Nobel Sinclair Lewis (1885-1951) una volta fu assediato dagli studenti universitari per una conferenza sull’arte dello scrivere. Gli studenti spiegarono che avevano un profondo desiderio di diventare scrittori. Lewis cominciò la sua conferenza dicendo: Quanti di voi desiderano seriamente diventare scrittori? Tutte le mani si alzarono. “Allora”, disse Lewis, “non ha senso farvi ascoltare una conferenza. Il mio consiglio è che andiate a casa e scriviate, scriviate, scriviate”. Saremo capaci di applicare la lezione alla grazia di essere misericordiosi che in tanti modi, sempre diversi, abbiamo ricevuto? 

Anche questa Parabola c’insegna, con tutta chiarezza, che è Dio che ha l’iniziativa, che a noi si avvicina mettendo nei nostri cuori (anche nell’intelligenza, nel corpo e nell’anima) i talenti di cui abbiamo bisogno per partecipare al regno dei cieli d’ora in poi. Una delle prove più chiare e visibili della sua risposta a colui che usa i suoi talenti per il bene del suo prossimo è la Beatitudine. Significa uno stato di pace che riconosciamo come indistruttibile. È per questo motivo che nell’AT e nel NT troviamo descrizioni come le seguenti: 

Beato chi trova in Te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio (Sal 83, 6). 

Il Signore sarà un riparo per l’oppresso, in tempo di angoscia un rifugio sicuro. (Sal 9, 10). 

“Gettate in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”. (1 Pt 5, 7). 

“Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Neemia 8, 10). 

Questa forma di pace non significa essere separati dal dolore e dalle difficoltà del mondo, bensì la certezza che nessuno può distruggerla. Allo stesso tempo, si caratterizza perché si trasmette agli altri, come si esprime poeticamente nella Prima Lettura. Una terza caratteristica della Beatitudine è che ci libera dal cercare la pace e la tranquillità nelle cose del mondo, come dice San Paolo nella Seconda Lettura. 

Come possiamo usare allora i talenti? Sicuramente, essendo tanto astuti come un serpente. Ci sono persone alle quali questo animale dà repulsione, ma per qualche ragione Cristo lo usa come modello (Mt 10, 16) per il nostro comportamento. Detto in termini moderni, ma anche in linguaggio zoologico: una volta localizzata la preda, non dubita di lanciarsi su di essa. Questa è la facoltà unitiva in azione, il centro del nostro sforzo ascetico. I serpenti non sono rapidi ed astuti solo a nascondersi, ma anche per passare all’azione. Il punto focale della parabola non è il beneficio ottenuto, bensì piuttosto l’atteggiamento con il quale ci disponiamo all’azione. 

Uno dei principali messaggi della Parabola sta nella sgridata del padrone al servo pigro: l’unico atteggiamento inaccettabile è l’indifferenza, e la paura del rischio. Fu condannato perché si lasciò bloccare dalla paura. La maggioranza delle nostre miserie provengono dalla negligenza e dalla irresponsabilità. Per questo motivo l’ultimo servo fu punito severamente.